Na’ashé wenishmà, prima faremo, poi ascolteremo la legge: come dire, osservava già Levinas, che la legge si adempie prima di assumerla, prima di conoscerla e di riconoscerla come legge. La pratica precede l’adesione. La legge, la si esegue prima di udirla. Che cosa vuol dire? Possiamo, qui, evitare di seguire, nella sua logica interna, il modo in cui Levinas legge la domanda – e, con lui, il modo in cui essa segna il cuore dell’ebraismo. Ne interroghiamo uno dei possibili sensi, di questa obbedienza, questa osservanza della legge che precede la legge stessa. Prima della legge, dunque, la sua attuazione, l’esecuzione di essa? Le ragioni non mancherebbero: ché, in ultima istanza, l’unico modo per poter dire una legge tale, per poter affermare, di essa, che ha la capacità di obbligarmi, non è fare ciò che essa prescrive? Solo nell’osservarla, nel fatto di osservarla – o nel fatto di riconoscere di doverlo fare – la legge diviene ciò che è, “dimostra” il suo dover essere osservata. Per questo: prima l’esecuzione, ché senza di essa non c’è legge, ma mero flatus vocis. Un’altra serie di ragioni provano, però, il contrario: dal fatto di riconoscere di dovere qualcosa, non ne consegue in alcun modo che quel qualcosa sia dovuto. Se credo di doverti o mi sento obbligato a darti cento, e ti consegno quella somma di denaro, ciò non “dimostra” affatto che avessi il dovere di farlo. Il sentirsi obbligato o il riconoscere di esserlo sono semplici fatti, i quali attestano ciò che io credo, ciò che penso sia il mio dovere. Ma che tale dovere esista, obiettivamente, è altra questione.

Ma, poi: che cosa significa osservare una legge? Significa comportarsi conformemente a ciò che prescrive? Ma il fatto che io tenga una condotta analoga a quella che una certa legge esige – ad esempio, il fatto che, quando sono alla guida, non supero mai certi limiti di velocità – dimostra, di per sé stesso, che sto obbedendo ad essa, che sto “osservando” ciò che essa mi impone? E se lo facessi per ragioni che non hanno nulla a che fare con l’esistenza di quell’obbligo – ad esempio, perché sono un tipo prudente, o un guidatore molto timido, o ancora perché me lo ha detto la nonna, di guidare piano? Certo – è la vecchia distinzione kantiana – alla legge non interessa perché guido in quel modo: le è sufficiente il fatto che io guidi senza mai superare i limiti da essa imposti. Ma ciò è sufficiente a rendere priva di senso la domanda?

Le questioni non sono finite. Davvero, affinché una legge possa essere efficace, possa applicarsi alla realtà, occorrerebbe comportarsi “conformemente” ad essa? Kelsen avrebbe, ad esempio, pensato l’esatto contrario: una norma, a rigore, si applica proprio in quanto non viene osservata. È solo in quanto il ladro ruba, che la norma che punisce il furto trova applicazione nella realtà. Ma si potrebbero – al di là di Kelsen – fare altri e diversi esempi: l’obiettore di coscienza che brucia la cartolina del militare, ricordava Amedeo Conte, certamente non osserva la norma che prescrive il servizio militare, eppure, al contempo, agisce in funzione di essa, e agendo così riconosce e assume tale norma come ciò che vale anche per lui. “Prima faremo”, dunque, e poi ascolteremo: ma che cosa, esattamente, faremo?

Che cosa, cioè, occorre fare per “provare” l’esistenza della legge, per far sì che essa sia per noi legge? Chi “realizza” la legge: chi la rispetta, la osserva, o chi la viola, la trasgredisce? Chi, di fatto, si comporta conformemente ad essa o chi agisce in funzione di essa – a prescindere che, poi, adempi o meno a ciò che prescrive? Chi semplicemente riconosce, rispetto al fatto che qualcosa viene comandato, di essere tenuto a farlo? Dobbiamo fare un passo avanti, ancora. Il fatto di attuarla viene davvero prima del suo “ascolto”? Perché quel fatto possa dirsi ciò che pretende di essere, cioè “attuazione” della legge, non occorre che la legge vi sia già? Lo si può dire in molti modi, ma il problema è sempre lo stesso – i giuristi, solitamente, lo formulano in questi termini: qualcosa è una legge perché viene osservata, o è osservato perché è una legge?

Pure, dovremmo forse leggere la domanda non come un’alternativa, un dilemma. Se la legge non può essere osservata prima del suo ascolto e, al contempo, non può essere ascoltata come legge se non dopo averla osservata, ciò significa che essa non è né prima né dopo il nostro comportamento. Osservarla, riconoscerla, credervi, violarla: nulla la fa essere. Perché essa non è prima di essere osservata, ma non è neppure dopo esserlo stata: nessuna azione, nessuna credenza, nessun fatto – questo è il punto – potrà mai farla esistere, far in modo che essa sia presente. Per questo è impossibile porsi prima della legge, così come porsi dopo di essa: occorrerebbe, infatti, individuare il tempo, il momento, in cui essa è presente – ma è esattamente questo che essa non è mai. Quando la legge diviene legge, quando essa diviene ciò che è – e non un semplice comando –, quel momento, quale che sia, non sarà mai il tempo di una presenza, di qualcosa che accade, che è.

Riflettere sulla legge significa riflettere su ciò che ha luogo in una temporalità che è sottratta alla presenza, e con essa al prima e al poi. Il che significa, però, che non sarà sufficiente neppure l’après coup, neppure il “contraccolpo” e il ritorno all’indietro, il “futuro anteriore”: la legge non si dà neppure in un dopo che istituisce il suo prima, neppure nel “circolo” di posto e presupposto – questo è l’errore, tra l’altro, di quanti hanno tentato di spiegarla a partire dalla performatività: la legge non può, infatti, istituirsi, rendersi legge. Non si avranno, qui, che aporie (i costituenti che, in realtà, sono tali solo in forza della costituzione che firmano e che promulgano; il sovrano che è reso tale dal fatto di decidere e la decisione che è tale in quanto decisione di un sovrano, etc.). Ma le aporie non sono una soluzione – sono, diversamente, ciò attraverso cui si rende pensabile il problema che le origina. E che rimane, come tale: che cosa fa della legge ciò che essa è? Cosa la rende legge? La prima cosa da fare sarà abbandonare l’idea, piuttosto diffusa, secondo cui l’esser legge della legge dipenderebbe dal soggetto che la riceve e riconosce, da un suo atteggiamento o da una sua azione. Ciò significherebbe, infatti, riportare nel tempo, nel tempo del nostro agire, quel movimento logico che al tempo è sottratto. Né ciò che faremo né cosa ascolteremo sarà mai in grado di fare in modo che la legge sia.