Sergio Benvenuto, Ø
1.
Per cominciare (male), dico subito che la mia linea di pensiero non coincide con quella di Rocco Ronchi. La sua linea detta “minore” è quella che, in modo molto sbrigativo, chiamerei Spinoza-Bergson-Deleuze, mentre io devo molto alla decostruzione e alla filosofia analitica. Ma ci occupiamo entrambi di una cosa, la soggettività, anche se io da psicoanalista sedotto dalla filosofia, e lui da filosofo sedotto dalla psicoanalisi. Eppure, con una certa sorpresa, noto che nel suo articolo “Prima persona” giunge a conclusioni che dal mio punto di vista, pur così distante, sono condivisibili.
La “prima persona” è il pronome io. Ma sia nel linguaggio comune che in quello filosofico per “io” possiamo intendere una quantità di cose, che possono essere omonime ma mai veramente sinonime. Questo risulta più confuso in italiano, che chiama “io” istanze che altre lingue distinguono. L’inglese ha “I” come pronome negli enunciati, “self” per dire ciò che noi chiamiamo “l’io”, ed “ego” per definire il punto di vista di uno qualsiasi. E così il francese, che usa “je” e “moi”. La frase di Rimbaud che Ronchi cita, “Je est un autre”, era una trasgressione, perché in francese si dice “je suis…” e mai “Je est”. D’altro canto, non ho mai incontrato una frase inglese con “the ‘I’”. (“I” si pronuncia come “eye”. Shakespeare ama giocare con questo).
In filosofia del linguaggio pronomi come “io” e “tu” si chiamano index symbols o shifters. Simboli-indici, nel senso che da una parte sono simboli della lingua come qualsiasi altro (prodotti quindi di una saussuriana arbitrarietà, difatti ‘io’ e ‘tu’ si dicono in modo diverso in ogni lingua), dall’altro sono atti ostensivi, come quando si indica qualcuno con un dito o si scrive una freccia per indicare la direzione. (Del resto anche il dito puntato e la freccia dipinta sono simboli, in altre culture si usano altri segnali ostensivi.) ‘Io’ come index symbol è una posizione in un gioco, in questo caso nel gioco della conversazione: ‘io’ indica chiunque stia parlando, ‘tu’ chiunque a cui si sta parlando. È come il Nero e il Bianco in un gioco di scacchi, per esempio. Potremmo dire che qui ‘io’ è il re, bianco o nero, perché se il re muore il giocatore è sconfitto. Ma non è detto che dietro il Nero, per esempio, ci sia una sola persona, ci può essere un team. Talvolta una partita è cominciata da uno, ed è proseguita da un altro, ma resta lo stesso Nero. Dietro l’Io-nero o l’Io-bianco ci possono essere vari… evito ‘persone’ per la sua connotazione religioso-spiritualista, evito ‘individui’ per la sua connotazione liberista. Per cui ricorrerò all’ossimoro masse soggettive. Un centauro filosofico che da secoli la filosofia cerca di smontare e rimontare.
Di quale ‘io’ stiamo allora parlando? Ronchi ricorre a una sequenza del Tractatus di Wittgenstein che include un grafico in apparenza semplicissimo. Ammetto che anche io sono ossessionato, da decenni, da questo grafico e da questa sequenza! Anni fa pensai addirittura di spiegare tutto Lacan agli studenti partendo proprio da questo grafico.
5.633…
E nulla nel campo visivo fa concludere che esso sia visto da un occhio.
5.6331 Perché il campo visivo non ha una forma come questa:
5.634 Ciò inerisce al fatto che nessuna parte della nostra esperienza è anche a priori.
Ronchi nota giustamente che il campo visivo qui è rappresentato come una goccia. Ci dovremmo chiedere perché. Secondo me Wittgenstein voleva evitare la rappresentazione convenzionale del nostro campo visivo come un cerchio o una sfera di cui l’“occh-Io” (lo scrivo così) occupa il centro. La forma irregolare del campo visivo disegnato vuol significare la sua irregolarità, invece. Wittgenstein pensa il nostro campo visivo come guardare dal buco della serratura, è una goccia da voyeur. Spiamo il mondo.
Ma l’importante è che il grafico mostri qualcosa che non è, non qualcosa che è. E perché non ha invece mostrato il grafico di quello che è, del fatto cioè che occh-Io non è parte del proprio campo visivo? Perché l’occh-Io non ha alcun luogo, rappresentarlo come fuori del campo visivo sarebbe stato pur sempre dargli un luogo… La rappresentazione grafica sarebbe stata auto-confutante. Ma l’occh-Io è metafisico – come dice Wittgenstein – proprio perché non sta da nessuna parte. Come non stanno da nessuna parte il Bianco e il Nero: sono una pura funzione del gioco. Come io pronome personale: è una mera posizione nell’atto della locuzione. La differenza tra enunciato ed enunciazione, su cui Ronchi si interroga, nasce proprio da questo: che dietro ‘io’ (e ‘tu’) presumiamo una massa soggettiva. Per lo più si dice: una coscienza. Ma non è detto. Oggi si costruiscono robot che dicono ‘io’, e tutti converranno sul fatto che un robot possa dire “io non ho coscienza” senza dire il falso. Diciamo che il robot simula la soggettività. Ma possiamo ridurre la soggettività alla coscienza, all’ego cogitans cartesiano? E poi, una coscienza non necessita sempre di un corpo, di un organismo vivente, di una massa soggettiva? Si dà il caso, in effetti, che ciò che chiamiamo ‘coscienza’ in natura implichi sempre un vivente… cosciente. È un’implicazione a posteriori, non a priori, non logica.
Quello che chiamo qui massa soggettiva è forse ciò a cui si riferisce Ferlinghetti, citato da Ronchi: quarta persona singolare “of which nobody speaks / and (…) / in which nobody speaks / and which yet exists”. Dirò più avanti come parlare, secondo me, di questa “quarta persona”.
Insomma, l’Io non è un assoluto, ma rimanda a qualcosa di assoluto che non può essere detto – se fosse detto, sarebbe ipso facto relativizzato. Ma come fa il linguaggio filosofico, che si basa sempre su relazioni proposizionali, a dire qualcosa di assoluto, di non proposizionale? Appunto, non lo dice, ma lo mostra.
2.
L’occh-Io di Wittgenstein può essere assimilato all’io parlante, il campo visivo è una metafora spaziale del dicibile. Wittgenstein vuol dire che dobbiamo pre-supporre un soggetto parlante a ogni atto di parola, un soggetto che guarda a ogni campo visivo. Ma il punto è: che cosa è “presupporre”?
A questo proposito Ronchi dice qualcosa che non condivido, l’«Enunciazione [è] senza soggetto presupposto». Evidentemente Ronchi pensa che se presupponiamo che esista un autore a qualsiasi testo, mettiamo, allora poniamo questo autore. Ma il punto è che possiamo non sapere assolutamente nulla di questo auctor presupposto, nemmeno il nome… Ovvero, darei a “presupposto” il senso di “qualcosa che devo presupporre ma non posso porre”. Diciamo che è una supposizione necessaria ma che non implica il suo essere-nel-mondo, il che è la definizione stessa della trascendentalità. Come l’occh-Io di Wittgenstein: proprio perché lo pre-sup-poniamo, supponiamo che sia prima-, lo proponiamo come ‘su’, non possiamo -porlo da nessuna parte. Come il Nero degli scacchi di cui sopra – difatti può essere anche un computer. Il “soggetto parlante” o occh-Io è una pura funzione costitutiva del linguaggio, ma lascia in sospeso – fa epoché – chi incarni questa funzione di volta in volta. Uno nessuno e centomila.
È come l’Ego della teoria dei giochi che interessava tanto Lacan. Si pensi al suo aneddoto del dilemma del prigioniero, dei tre prigionieri che possono essere liberati se deducono il colore del cappello che hanno in testa (Il tempo logico e l’asserzione di certezza anticipata). Qui ciascun prigioniero è un Ego, nel senso che può essere chiunque dei tre.
Direi di più. Che la filosofia si emancipa dalla metafisica solo quando osa evocare un ‘presupposto’ che resterà sempre tale, che non potrà mai essere posto, ovvero mai detto. Perché la metafisica consiste sempre in questo: nel pretendere di dire ciò che, proprio come condizione di ogni dicibilità, non si può dire. La trascendentalità è ciò che resta della rinuncia alla metafisica, come il nocciolo che resta dopo che si è mangiata una pesca.
La trascendentalità è ciò che trascende ogni discorso, compreso quello filosofico, solo che il discorso filosofico è caratterizzato dal masochismo di mostrarlo, questo scacco del proprio discorso.
3.
Allora, che rapporto c’è tra io come index symbol e ciò che la tradizione chiama “l’anima”? La fenomenologia filosofica si è dedicata anima e corpo, direi, a mostrare che anima e corpo sono la stessa cosa, da qui il successo mondano della nozione di embodiment, a cui sono particolarmente affezionati gli scienziati cognitivi un po’ scavezzacollo. Ma la vera questione secondo me non è quella dell’anima-corpo, quanto la relazione tra ciò che chiamiamo confusamente “anima” e le posizioni simboliche. Se si vuole, la relazione tra l’io psicologico e l’Io metafisico di Wittgenstein, questo supposto che non può mai essere posto. L’io è metafisico in quanto è un posto che può essere occupato di volta in volta da masse soggettive diverse, ma che non è affatto riducibile a chi, provvisoriamente, lo occupa.
Da qui la sensibilità di Ronchi alla questione della differenza tra enunciato ed enunciazione. Cosa in fondo molto terra terra, come nel “parlare a nuora perché suocera intenda”.
La migliore descrizione della differenza tra enunciato ed enunciazione è forse la barzelletta ebraica evocata da Freud. Sui due ebrei rivali che si incontrano nel treno e uno alla fine dice all’altro “perché dici che vai a Varsavia per farmi credere che vai a Wroclaw, mentre davvero vai a Varsavia?” La battuta è particolarmente interessante perché sia l’enunciato che l’enunciazione ‘dicono’ la stessa cosa: che l’ebreo va a Varsavia. Eppure la differenza tra i due è abissale, perché nell’enunciazione c’è qualcosa che non appare nell’enunciato: il desiderio di ingannare. Il mio desiderio di ingannare l’altro e il desiderio dell’altro di non farsi ingannare. L’enunciazione diventa pertinente quando entra in gioco il desiderio, che – dice Freud – non coincide con il volere conscio. Un robot può produrre enunciati infiniti, ma nel parlare con esso non c’è enunciazione, nel senso che il robot non ha un inconscio.
La conclusione di Ronchi è che «reale è solo l’atto dell’enunciazione che non suppone però alcun soggetto, che non implica nessun ‘Io’ che ‘dica io’». Eppure, se vogliamo mettere in enunciato l’enunciazione del Witz ebraico, possiamo dire “io voglio ingannare l’altro proprio dicendogli la verità”. Come si vede questo ‘io’ può apparire benissimo. Dipende però da quel che Ronchi intende per ‘reale’ e da quel che intende per ‘soggetto’: sono concetti ancora tutti da chiarificare.
Abbiamo già visto sfilare vari ‘io’: l’index symbol, l’io parlante presupposto, il self pieno della psicologia, etc. Il reale è ciò che comunemente chiamiamo realtà? Lacan, come è noto, li ha nettamente distinti. Il reale è l’ente? I significanti, allora, sono enti? A cominciare dai numeri, questi significanti sono enti? Le immaginazioni sono enti? E le classi di classi? … Non aspetto che Ronchi dia risposta a tutto questo, dirò come io formulerei quel che mi sembra lui voglia dire alla fine.
Wittgenstein si è occupato della soggettività nelle Philosophische Untersuchungen (PU) nella forma dell’opposizione pubblico/privato. Il pubblico è il discorso che Ronchi chiama “in terza persona”: si parla dei soggetti umani come oggetti, alla terza persona. Anche di sé stessi come proprio oggetto. Nelle scienze umane «si passa il testimone dalla prima alla terza persona», come dice Ronchi. È quando uno psicologo fa la psicologia degli psicologi, o un sociologo fa la sociologia dei sociologi… Bourdieu, per esempio, ha scritto un libro sociologico sull’homo academicus essendo lui stesso un accademico. È il sogno del positivismo: l’uomo fa dell’uomo oggetto di scienza, finally. Sappiamo però come questo mettersi alla terza persona, essere il proprio oggetto, sia un’operazione auto-referenziale che conduce a paradossi, almeno in logica. Quando un soggetto pone sé stesso come proprio oggetto, si finisce prima o poi con l’Epimenide… Allora il soggetto si scinde, diventa due (Epimenide come cretese, ed Epimenide che parla dei cretesi). La scissione è il solo modo per evitare il corto circuito tra “io dicente” e “io detto”.
Ora, Wittgenstein attraverso un ragionamento quanto mai ingegnoso (l’Argomento del Linguaggio Privato, che molti considerano un mero sofisma) nelle PU ha voluto dimostrare che “il privato” – altro modo di dire il soggetto – si può esprimere, ma non conoscere. È la replica al gnoti se auton socratico: non si può conoscere sé stessi! Punto. Ovvero, non esiste linguaggio del privato né sul privato. Il privato è fuori del linguaggio come l’occh-Io del Tractatus, solo che ora non si tratta più di un soggetto incorporeo al di qua della serratura, ma di un reale denso che si esprime… Usando altri termini: il linguaggio, e quindi anche la filosofia, non può dire il privato, ma può mostrarlo. Nel senso che esso si mostra attraverso il linguaggio.
L’esempio preferito da Wittgenstein è “ho mal di denti”. Un’esperienza di dolore. Alla fonte degli enunciati c’è la densità del dolore. L’enunciazione di “ho mal di denti” è il grido.
Molti, dopo Wittgenstein, hanno dato un’interpretazione “socialista” di questa tesi sull’impossibilità di conoscere sé stessi: che l’interiorità non esiste, che tutto è pubblico, che siamo sempre essere-con, che il noi viene prima dell’io, etc. Questa linea post-wittgensteiniana è parallela a una certa linea di filosofia continentale, che vuole dissolvere l’interiorità e la soggettività nei flussi sociali, nella comunicazione, etc. Si promuove il dissolversi del soggetto nella terza persona. Ma io non leggo Wittgenstein affatto in questo modo.
(In tutta confidenza, nemmeno il lavoro analitico porta a conoscere sé stessi, come si crede comunemente. Al contrario, porta a trovare un linguaggio grazie a cui il soggetto possa esprimere ciò che non si può descrivere. Porta a una giusta espressività.)
4.
Proprio perché il soggetto si esprime ma non conosce sé stesso, il soggetto è reale. Se intendiamo ‘reale’ in senso lacaniano, non come ciò a cui il linguaggio si riferisce, ma ciò che sospende il linguaggio, che lo travalica, che si impone all’io come “impossibile”. È quel che anche Ronchi dice a suo modo – per lo meno così credo – dicendo che «il Soggetto è la puntualità atomica del presente vissuto», oppure è «il pronome per il nessuno che io, come chiunque, sono sempre al fondo del mio essere qualcuno». In effetti, non è chiaro chi sia questo “pronome per il nessuno…”. Io? Ma io come index symbol non ha nulla a che fare col soggetto in quanto privato wittgensteiniano. È il soggetto come reale, ovvero come indicibile, direi come singolarità. Ecco un altro termine molto interessante, singolarità.
Quando si dice ‘singolo’ si pensa per lo più al singolo kierkegaardiano[1], ma si dà il caso che il termine ‘singolarità’ sia molto importante in fisica e in matematica. L’origine del Big Bang, per esempio, è una singolarità, ovvero, non c’è nessuna causa dicibile che spieghi questo evento. La singolarità è puro evento, che non chiamiamo creazione perché non gli supponiamo nessun creatore. È l’evento come assoluto, come sciolto da ogni legame causale e quindi anche simbolico. “Io” sono una singolarità che in quanto singolarità non potrà mai dirsi. Sono un quod senza quid. Certo io singolare posso esprimermi, ma non sempre nel modo giusto. Alla fine di ogni ricostruzione analitica (sia analitica filosofica che psico-analitica) finiamo nel buco della singolarità, simile a quell’“ombelico del sogno” di cui parlava Freud e che Derrida ha ripreso: il non-interpretabile a fondo di ogni interpretabile. Direi, è la stupidità di quell’evento che io sono. Ma non capisco perché “atomico”, come dice Ronchi: ognuno di noi è una massa, anche se poi la infiliamo dietro il buco della serratura. In quanto ‘io’ siamo puntiformi, ma come “me stesso” siamo una farragine di ricordi, conati, passioni, missioni…
Ronchi ha espresso questo punto citando il bel passaggio della poesia di Antonella Anedda, «alla fine torno all’io che finge di esistere / ma è una busta come quelle usate per la spesa / piena di verdure e di pesce congelato». L’immagine della busta con le verdure e il pesce congelato è un’immagine di quotidianità povera. Legata alla necessità di mangiare. Il soggetto (se inteso come privato di Wittgenstein) è povero, inerme… dolorante per i denti. Ronchi evoca il neonato, ma andrei oltre: evocherei delle creature che non dicono mai “io”, le bestie. Oggi viviamo in un’epoca animalista, molti amano i loro pets (favoriti), cani gatti o pappagalli, molto più degli esseri umani. Cosa particolarmente ci attrae, ci commuove, in certi animali? È che rendono presente la povertà dell’esistere, la fragilità del vivente, il reale della vita nella misura in cui si esprime nel godimento e nella sofferenza, e dove la questione dell’“io” sfuma in quella singolarità che non ha pro-nomi, perché non ha nomi. Non è “la quarta persona” di Ferlinghetti, ma la non-persona che ciascuno di noi è come essere vivente, come evento assoluto che tutto il linguaggio e il sapere non riescono a ridurre alla ragione.
Insomma, occorre che il filosofo ricordi di essere un essere vivente come tutti gli altri, e che quando parla del vivente lo fa sempre al di dentro di quella vita di cui pensa di parlare come proprio oggetto. Rinunciare alla metafisica significa anche rinunciare al meta-bios, alla pretesa di parlare della vita come se stessimo al di fuori di essa.
5.
Ma allora, che rapporto c’è tra l’Io metafisico di Wittgenstein, l’io index symbol, il privato e la soggettività intesa come il reale della singolarità?
L’io index symbol è come il navigatore in oceani sconosciuti che a un certo punto grida “terra!”. Ovviamente non sa che cosa sia, né che cosa ci sia in, questa “terra”, si limita a indicare il fatto che una terra è venuta in vista al navigatore. L’io pronominale è proprio questa “terra!”. Ma ancora di questo soggetto-terra non si sa nulla. Diciamo che io index symbol promette una soggettività (ma la promessa potrebbe andar delusa, può essere un robot che si fa passare per essere umano, come si vede in tanti film di fantascienza) che è tutta ancora da vedere e da esprimersi.
L’io metafisico o io parlante è la supposizione di ogni discorso che non può mai essere posta. Proprio perché il Tractatus voleva rompere con la metafisica, esso deve presupporre un Io metafisico: come ciò che non sarà mai “fisico”, ovvero dicibile. In questo senso Wittgenstein non è materialista, e nemmeno idealista. L’io pronominale in questo caso designa una pura funzione, che implica comunque delle esistenze. In altri termini: l’io metafisico esclude ogni Geist hegeliano. Lo spirito come Io assoluto è un’illusione: è confondere una funzione con un’attività. Sarebbe come dire che il Nero a scacchi è qualcosa che evolve, prendendo di volta in volta le forme dei vari giocatori che giocano nero. Non c’è alcuna relazione tra il Nero e i vari giocatori umani che ne assumono la funzione. Insomma, la storia non ha senso…
E c’è poi il soggetto come reale, che Ronchi ha cercato di delineare, come puro evento animale prima della cattura nel linguaggio. Ed è qui allora che incontriamo la sfida della psicoanalisi, che Ronchi evoca. Il filosofo si chiede con che razza di soggetto ha a che fare l’analista. Questo argomento ci porterebbe troppo lontano. Ma qualcosa va detta.
Ronchi dice che per Freud viene prima la terza persona, poi la prima. Credo che si riferisca al detto Wo es war, soll ich werden, che poi tradurrò. Direi piuttosto che le tre persone nascono simultaneamente, così come il nero e il bianco degli scacchi nascono simultaneamente. Ognuno dei tre al singolare implica gli altri due. È vero che i bambini spesso cominciano col parlare di sé alla terza persona, ma perché il linguaggio ci viene sempre dall’Altro, e per l’Altro siamo sempre ‘altro’ rispetto a sé.
Es è terza persona singolare neutra, è vero. Ma l’importante è che sia appunto neutra, il che è come dire che non c’è. In tedesco si dice “es regnet”, in italiano “piove”, ovvero qui es è tradotto con un significante-zero, come si dice in linguistica. Il significante-zero è scritto con Ø. Per cui potremmo scrivere “Ø piove”, come “Ø fa caldo“, “Ø nevica“, “Ø è bello“… Possiamo certo indicare Ø con una terza persona, ma non è né un pronome (non prende il posto di alcun nome) né tanto meno una persona. Ora, per Freud dietro i vari io ci sono “Ø desidera”, “Ø gode”. Questa è la sua antropologia. Per cui la frase freudiana più sopra potrebbe essere resa come “nel posto in cui Ø era, là io devo subentrare”. Una visione certamente molto ambiziosa del lavoro psicoanalitico, troppo ambiziosa per molti oggi.
In ogni caso, per la psicoanalisi il disagio dei soggetti nasce sempre dal fatto che nell’irretirsi del privato (della massa soggettiva) nel linguaggio qualcosa di essenziale resta fuori, per sempre. È quel che Freud chiamava Urverdrängung, rimozione originaria. C’è un reale soggettivo, un Ø che sbraita, che non si sente “rappresentato” dal simbolico (e quindi dalle tre persone), che cerca un suo modo di esprimersi, di farsi valere nel mondo della comunicazione umana. L’analisi non può certo rimediare all’Urverdrängung, all’alienazione originaria dell’umano nell’Altro, nel linguaggio, ma può aiutare il soggetto a trovare il modo di accettare e far accettare la propria singolarità.
È possibile che la convergenza che vedo nel saggio di Ronchi con la strada che percorro io sia solo effetto di un mio fraintendimento. Ma se non fosse fraintendimento, allora gli direi che tanti suoi enunciati non li capisco, ma forse la sua enunciazione l’ho capita.
note
[1] Il singolo di Kierkegaard è connesso a un’etica della libertà. Ma come, dopo Freud, possiamo credere alla libertà del soggetto?