Rocco Ronchi, Prima Persona
La prima persona, spiega Émile Benveniste, è il soggetto dell’enunciazione: non l’io incessantemente detto nella mia affabulazione ma l’Io che lo enuncia. La domanda critica è allora: la prima persona viene effettivamente per prima? A qualificare l’impresa filosofica contemporanea è stata la risposta negativa data a questa domanda. Prendiamo ad esempio la lezione freudiana: la prima persona, secondo Freud, viene “dopo”, anche se all’apparenza viene prima. L’apparenza, tuttavia, inganna. Tutta la vicenda analitica (si veda il caso esemplare de L’uomo dei lupi) insegna che le cose vanno in senso inverso. Prima c’è in realtà la terza persona, che non è un “Io che dice io”. La terza persona è un neutro, un Esso (Es), un “si”. La prima persona sarà l’après coup di questo Esso. Il “soggetto dell’enunciazione” è così detronizzato. Il dire dell’“L’Io che dice io” è, in realtà, un ronzante. Si parla in Me. Prima c’è solo il mormorio incessante rispetto al quale “Io” sono un oggetto tra gli altri per questo Altro insituabile. L’ego non è dunque nient’altro che una trascendenza posta. La lezione freudiana incrocia quella fenomenologica, a dispetto del primato apparente che la prima assegna all’inconscio e la seconda, in modo altrettanto apparente, alla coscienza. In realtà anche alla coscienza fenomenologicamente intesa non è possibile mettersi “davanti”: il suo anonimato è a priori. Ci sono cose per “lei” e tra esse c’è anche quella cosa denominata “Io”, ma se volessi oggettivarla sparirebbe immantinemente. Questa aporia non è affatto nuova. Attraversa l’intera storia filosofica della modernità post-cartesiana ripetendosi sostanzialmente in modo sempre uguale. La prima persona, si dice, è un effetto retroattivo della terza persona: il suo enunciato contiene un soggetto derivato che si insignorisce di un fondamento che però non gli appartiene.
In quella formuletta – “Io che dice io” – l’io torna due volte ma non è lo stesso Io a tornare. La relazione è di omonimia non accidentale: L’io detto dall’io non è l’io che dice io, sebbene i due siano implicati (per questo parliamo di non accidentalità dell’omonimia). L’io detto dall’io è un oggetto, è una persona, un prosopon, qualcosa che sta davanti agli occhi, l’Io che dice io è un “soggetto” senza volto, impersonale, per il quale, come notava Wittgenstein, non ha senso porre al vertice della piramide visiva (in realtà nel Tractatus il campo scopico è molto più correttamente presentato come una goccia) un occhio che guarda. Il primo è una cosa, il secondo un evento. La semiotica contemporanea ha formalizzato queto processo facendo dell’enunciazione un “piccolo dramma” di stampo brechtiano: l’io non è nient’altro che un detto, qualcosa di posticcio, a cui si crede come i “primitivi” credono ai feticci, sapendoli cioè istituiti. L’ego è un personaggio, forse solo una “maschera” (“maschera” è la seconda accezione del termine “persona”). La sua consistenza è solo immaginaria. Reale è solo l’atto dell’enunciazione che non suppone però alcun soggetto, che non implica nessun “Io” che “dica io”, ma si risolve materialisticamente in una pluralità di pratiche significanti tra loro intrecciate (una pluralità, un concatenamento, una coabitazione di istanze enuncianti eterogenee che “pulsano” nell’enunciato). Quel mormorio che sono e che non posso non essere ogni volta che dico “io” è così prodotto dalle voci degli altri che mi istituiscono nell’essere (e che, talvolta, mi destituiscono dall’essere), alle quali, finché sono, sono chiamato a rispondere. Innestandomi con il mio turno conversazionale in questa conversazione infinita, che è cominciata altrove e che continuerà dopo di me, “io” prendo figura e momentanea consistenza: mi individuo come Ego. La prima persona è così un effetto del significante, una concatenazione di enunciati. «L’“io” è ciò che può rendersi “egli” e non c’è soggettività al di fuori di questo concatenamento della persona (io) e della non persona (egli) che il discorso libero indiretto esprime in modo privilegiato e sintomatico»[1].
La celebre formula “Je est un autre” sintetizza perfettamente questa posizione teorica. Non a caso Rimbaud non manca mai di essere citato ogni volta che la questione del soggetto viene posta. È una posizione difficilmente contestabile e ha dalla sua l’autorità dei nostri maestri. Ciò non toglie che la domanda critica possa essere soggetta a un’altra domanda critica. Ci chiediamo: passando il testimone dalla prima alla terza persona siamo realmente andati alla radice della prima persona, smascherandone il preteso primato? Per rispondere occorre tornare a “contarsi” e verificare se nel conto non salta, per caso, un Uno soprannumerario. La domanda che chiede “chi sono?” chiede, in effetti, “quanti” siamo. Già Platone ne conta almeno due quando fa del pensiero un dialogo silenzioso dell’anima con se stessa. L’anima, per Platone, è una scena teatrale. Dei personaggi la calcano. La decostruzione rimane platonica quando fissa l’istanza della presenza a sé nel “sentirsi-parlare”. Plotino, coerentemente, dovrà porre questo due dopo l’Uno intendendo l’anima dialogante con sé come una riflessione che allontana dalla vera origine che è l’Uno-uno irriflesso. La prima persona, l’Io che dice io, per Plotino, è infatti una decadenza dell’Uno-uno. “Lui”, il Principio, non sa proprio nulla di sé: “lui” è inconscio. Due, per gli antichi, è infatti sempre meno di Uno. La coscienza viene “dopo”. I moderni faranno invece coincidere il due con l’Uno. Ecco il loro colpo di genio: Ego cogito non significa ora nient’altro che cogito me cogitare. Uno in questo caso non è infinitamente più di due, come per gli antichi, ma equivale a due: Uno è due e due è Uno. Si aprono però così le cateratte della regressione illimitata del presupposto. Il Bradley regress fa la sua irruzione già con Fichte. Se l’Io che dice io è una relazione, l’Io non può essere un assoluto. Assoluto significa irrelato. Non resta allora che un conto da fare per rispondere alla domanda “chi sono?”. È il conto fatto dai nostri maestri: io non sono, come soggetto, né un due che è meno di Uno, come pensano gli antichi, né un due uguale a Uno, come pensano i moderni. Sono due più Uno. Il Due (la relazione riflessiva) per non dividersi illimitatamente ed evaporare così nel nulla implica alla sua radice un più Uno che vige come fondamento di possibilità della coppia (la relazione riflessiva Io-Me). All’origine dell’“Io che dice io”, come sua causa sempre in atto, c’è un Uno che si sottrae al regime della coppia, un Uno tutto solo, privo perfino della zavorra dell’essere. Essere sarebbe già di troppo per lui. Siamo due più Uno senza che l’Uno sia incluso nell’insieme di cui fanno parte gli altri due. Due più Uno, in questo caso, non fa tre. L’Uno del più Uno non è uno fra i molti (in tal caso due più Uno farebbe tre). L’Uno in questione ha piuttosto la natura trascendentale del limite che genera una serie differente per natura dai termini che la compongono. L’Uno del più Uno non è nessuno dei due, non avendo per altro altra istanziazione che nella riflessione nella quale non cessa di andare a fondo. Se Io e Me sono i poli della riflessione che costituisce la soggettività e che i primi due pronomi personali singolari indicano (quando “io” penso mi do infatti del “tu”), il più Uno, sotteso alla riflessione, è allora un terzo per il quale ben si addice la terza persona singolare, nella sua strutturale ambiguità di deittico della non persona o, come è stato detto, della persona compresa nel suo processo di autocostituzione materiale mediante oggettivazione enunciativa.
Ma questa terza persona è veramente terza? È, cioè, l’impersonale la risposta? Tutto cospira oggi verso questa soluzione che ha qualcosa di troppo pacificante. Una poetessa lo rileva con questo sillogismo: «Vorrei disfarmi dell’io è la moda che prescrive la critica / ma la povertà è tale che possiedo solo un pronome» ergo «alla fine torno all’io che finge di esistere / ma è una busta come quelle usate per la spesa / piena di verdure e di pesce congelato»[2]. Cosa significa attenersi all’evidenza “che possiedo solo un pronome”? Cosa significa tornare al vituperato “io che finge di esistere”? Significa non trascurare un fatto macroscopico: il più Uno, l’impersonale, la terza persona, l’irrelato che funge al fondo della relazione, come sua causa in atto, non può che essere “esperito” ad una primissima persona. L’impersonale (lui) io lo sono. Il suo essere “dato” non è niente di irenico: è piuttosto un “trauma” grazie al quale non sono più individuato come soggetto (ego) ma come singolarità insostituibile e pre-soggettiva. Il pronome “io” che nella mia estrema povertà “possiedo” è dunque il pronome che sta per “me” in quanto pura ecceità. L’ecceità è quanto residua (nel senso fenomenologico della epoché) quando il “mondo”, inteso come totalità significante, tramonta alle mie spalle, a causa dei colpi del destino. Niente di contingente, ma pura incircoscrivibile attualità che non è possibile trascendere. L’esempio fornito da Deleuze, in Immanenza. Una vita è quello dickensiano della canaglia che si ammala, divenendo momentaneamente solo “una” vita che vive e che suscita la compassione degli altri o quello del neonato la cui singolarità insostituibile per essere avvertita dall’amore materno non abbisogna certo di passare attraverso la prova della soggettività (il neonato non è un “Io che dice io”). Utilizzando una formula un po’ enfatica: è il pronome per il nessuno che io, come chiunque, sono sempre al fondo del mio essere qualcuno. Dovendolo classificare si è allora nella necessità di ricorrere ad una fourth person singular “of which nobody speaks / and (…) / in which nobody speaks / and which yet exists”. Ferlinghetti la lascia in eredità a Gilles Deleuze, che, traducendola, ne evidenzia lo statuto paradossale, dal momento che person e nobody in francese si traducono personne: alla quarta persona (personne) del singolare è nessuno (personne) che prende finalmente la parola alla prima persona (personne).
Se l’enunciazione “Io che dico io” è un “piccolo dramma” allora implica anche una scena. “Io” (soggetto dell’enunciazione) e “me” (soggetto dell’enunciato) ne sono i personaggi. L’“azione” è il discorso libero indiretto grazie al quale un soggetto “si enuncia” insignorendosi immaginariamente del Principio, individuandosi come “ego”. La scena è però l’aver luogo di questa enunciazione senza soggetto presupposto: la scena sono “io”, l’ecceità, alla quarta persona del singolare, un ipse che non necessita della mediazione del Soggetto pensante. Già Platone, per un dramma assai più grande, aveva dovuto aggiungere ai personaggi principali della cosmogenesi – l’Idea e la cosa che ne partecipa difettivamente – il luogo, il ricettacolo, la chora, ciò “da cui” e “in cui” si genera. Aveva scritto che se per l’idea c’è il logos e per la cosa la doxa, per quel “terzo genere”, che produce come “causa errante”, occorre un loghismos tis nothos. Traduciamo: non è un concetto, non è un’intuizione sensibile ciò che fa sentire l’ambito in cui si svolge il dramma cosmico della partecipazione dell’Idea (il dramma dell’individuazione), ma una mathesis intensorum, un colpo di sonda nel fondo mostruoso del divenire. Se con un loghismos tis nothos si risale alle spalle del cogito me cogitare, alle spalle del due, prima della rappresentazione, si ode il risuonare di quel colpo. Allora si intravede, come in sogno, la causa errante del cogito:sum: il Soggetto è come raggiunto dal Principio.
Il Soggetto è la puntualità atomica del presente vissuto, come negarlo? L’equazione cogito:sum è incontestabile. L’attualità del “qui e ora” è intrascendibile, ma il qui, quel nucleo incandescente di estensività, è rimasto generalmente trascurato a favore del nunc. Il dramma dell’individuazione ha occultato la scena dell’individuazione, proprio come accade nel teatro naturalista aborrito da Brecht. Del suo aver luogo0, del suo occupare spazio, del suo farsi peso e gravità e, infine, corpo, si sono perse le tracce. Immanenza a sé ha significato per i moderni il presente vissuto dell’Io che dice io (il nunc stans dell’istanza di parola). Il nunc è però solo il versante umano, troppo umano, di quell’ aver luogo0 (hic) che non è qualcosa di esteso, ma che dell’estensione è la radice, una sorta di grado0, che ne è la causa intensiva, il Principio generatore, il dx/dy che spiega la genesi della curva ego sum, ego existo.
note
[1] C. Paolucci, Persona, Bompiani, Milano 2020, p. 251.
[2] A. Anedda, Historiae, Einaudi, Torino 2018, p. 20.