Marta Roberti, Prima
E pure sono, quegli scomparsi da lungo tempo, in noi come di-sposizione, come peso sul nostro destino, come sangue che mormora e gesto che s’alza dalle profondità del tempo..
R.M. Rilke
Penso: anche l’adesso diventerà un “prima” per un altro adesso a venire.
Provo ad immaginarmi antenata di un tempo che verrà. Con l’immaginazione provo a rappresentarmi antica a me stessa e subito mi sovviene che un amico mi diceva: “Tu sei antica”. Sono antica da sempre, antica sono nata. Il mio immaginario ha sempre faticato ad accostarsi al presente attuale: alle macchine e ai palazzi ho sempre preferito gli animali, i corpi nudi, le piante e i boschi. Perché vicino ai boschi sono nata e non in una città, pensavo.
Prima. Interrogarsi sul prima. Prima di cosa? E se non esistesse un prima? Se, come crede Bergson, ogni presente attuale non è che l’intero passato nel suo stato più contratto, “non si può dire che il passato era, ma bisognerebbe ritenere che insiste, consiste, è”. Che questo istante attuale non sia che uno spasmo di passati virtuali compresenti, un groviglio di memorie inconsce. Questa tesi cosa comporta?
Quando era ora.
Proviamo a concepire questo momento attuale come veramente intriso di memoria latente, caliamoci in un remoto passato e proviamo a percepirlo come l’ora che è stato. Facciamolo risorgere nel presente.
Dopo mesi di immersione in immagini arcaiche e narrazioni mitiche non mi è difficile calarmi per pochi minuti nel torbido abisso della preistoria. I testi dell’archeologa lituana Gimbutas favoriscono spiragli entro cui accedere in quel fantasma che è l’Europa neolitica.
Siamo nel 6000 a.C. circa. Mi trovo in un villaggio, mi pare di poter riconoscere il paesaggio come una di quelle enormi pianure dell’attuale Ucraina, ma forse potrebbe essere la Polonia. Sono seduta su un prato dove l’erba che era stata sepolta dalla neve per i lunghi mesi dell’inverno si sta ora affacciando ai primi soli della primavera. Ci sono alcune donne e degli uomini, ma non saprei dire che età abbiano. Il sole non è ancora alto nel cielo, ma già ci sta riscaldando. La notte era stata piuttosto fredda. Tra le mani abbiamo dell’argilla umida e ne stiamo ricavando delle sfere grosse come pugni; sembra ottima: capiamo che non serve purificarla da sassolini e detriti. Ce l’hanno portata quella stessa mattina dei ragazzi; l’hanno trovata sul bordo di un torrente non lontano. Sin dalla mattina molto presto andavano e tornavano dal fiume caricandosi di fango che raccoglievano in pelli e che poi svuotavano su una sorta di tovaglia, attorno a cui io e le mie compagne ci eravamo sedute in cerchio. Non parlavamo molto, ma tutte esprimevamo nella postura del corpo e nel volto quella gioia che precede la creazione degli strumenti utili alla vita quotidiana.
Il fango era molto rossiccio e nelle mani di ognuna plasticamente si rassodava in forme simili e diverse. Non era passato molto tempo e cominciavo a vedere poste a terra numerose ciotole. Ma io non avevo ancora finito: mi stavo ispirando al corpo della donna più anziana del gruppo per modellare una statuina. Era seduta con noi e sotto le sue vesti mi immaginavo le sue natiche grosse, mentre i suoi seni incredibilmente grandi erano parecchio visibili in quei giorni caldi in cui ci si spogliava per farsi penetrare dal calore del sole. La donna che avevo ritratto aveva avuto un numero di figlie e figli di cui oramai si era perso il conto, così che tutte e tutti la adoravamo come una creatura magica, e anche per me quella donna lo era, perché il suo grembo, più di quello di ognuna di noi, aveva dato origine alla vita.
Volevo omaggiarla con una specie di ritratto. Quando lo conclusi l’argilla si era già un po’ seccata; le porsi la mia statuina, gliela donai e lei mi dimostrò la sua gratitudine porgendomi la ciotola che aveva appena modellato. Sopra la ciotola, con l’ago di una pianta, aveva inciso delle forme di spirale: sapevo che si trattava del serpente che ci aveva raccontato di aver visto strisciare proprio vicino ai suoi piedi il giorno prima. Diceva che quell’incontro era stato di buon auspicio per tutto il villaggio.
Dopo qualche giorno, la donna dai grandi seni e dai fianchi larghi mi disse che aveva riposto la mia statuina nel granaio del villaggio e che sarebbe stata la madre di tutti i figli ma anche degli animali e delle piante. Alla statuina cominciammo a rivolgerci perché ci offrisse ogni anno un raccolto abbondante.
Un’abbondanza di immagini antropomorfe e zoomorfe è sopravvissuta dalle culture della vecchia Europa, della vecchia Anatolia e della regione mediterranea. La Dea cosmogonica, che riflette attività rituali legate alle realtà stagionali della vita neolitica, per millenni è stata la metafora della fonte sacra della vita, dell’inevitabilità della morte e della promessa di rinascita all’interno dei cicli del mondo naturale. Dall’epoca preistorica, le divinità della terra hanno orientato la creazione di narrazioni e l’immaginario iconografico delle culture di tutto il mondo.
La dea che era per prima apparsa nel paleolitico è sopravvissuta ed è stata adorata in diverse civiltà in ogni epoca e nei millenni successivi tramutandosi ora nella Potnia Theron dell’età del bronzo, ora in Ishtar e poi in Cibele, ma anche nella Durga indiana, nella dea azteca Coatlique, e così via.
Pensando alle sopravvivenze e alle ritornanze, Warburg disegna una storia delle immagini come una storia di fantasmi e latenze, ritorni e ripetizioni. Secondo Warburg, le forme che sopravvivono non sopravvivono trionfalmente alla morte delle concorrenti, ma sopravvivono come sintomi e fantasmi alla loro stessa morte. Certe forme che sembravano scomparse riappaiono molto più tardi, in un momento in cui non erano più attese. Nella storia dell’arte ci sono pause, crisi, salti e ritorni periodici; le latenze cercano di aprirsi la strada per tornare alla superficie degli eventi attuali. Più che guardare a una storia dell’arte suddivisa in epoche, si potrebbe invece osservare, come ci insegnano Warburg e Burckhardt, nella storia le intermittenze, le perturbazioni e le fermentazioni in atto nelle diverse epoche e le loro incarnazioni successive che presuppongono trasformazioni, metamorfosi, imperfezioni ed elementi di impurità.
Nella mia pratica artistica, negli ultimi mesi ho esplorato le varie incarnazioni della dea nelle diverse culture e civiltà sia del Mediterraneo, che dell’Asia e del Centro America. Le ritornanze di cui parla Warburg mi pare non avvengano solo nel tempo, ma si possano rintracciare anche nello spazio. Ho studiato le iconografie delle varie dee che quasi sempre sono associate agli animali e mi sono riprodotta imitandone le posture. Dapprima, in modo performativo, ho ricalcato con il mio corpo le loro pose e i loro movimenti incarnando quell’estraneità fino ad appropriarmene. I risultati sono stati dei grandi disegni, che a Bombay ora stanno per essere ricamati su grandi tessuti, dove mi sono autoritratta come varie dee arcaiche.
Ishtar
Potnia Theron Gru