[a cura di Valentina Galeotti]

Esiste un prima della creazione? C’è un’idea prima dell’opera?

Ok, io direi che una domanda alla quale al contempo è difficile ma anche molto facile rispondere, è una domanda che presuppone la pratica artistica come pratica che ci guida; allora mi verrebbe da dire che l’ideazione dell’opera è il risultato di una praxis. Un’abitudine quotidiana ad affrontare le stesse questioni tramite gli stessi strumenti.

Risoluzione di una problematica, pulsione, orientamento, come mettere al mondo un’opera d’arte? La nascita di una nuova opera è sempre un intoppo all’interno del processo creativo al quale bisogna rispondere in una maniera ideale oltre che pratica.

Le due cose sono intrecciate tra di loro. L’opera d’arte nasce contemporaneamente in base ad una prassi e a un’ideale che cercano di combinarsi tra di loro.

A volte l’ideale e la prassi sono anche in contrapposizione tra loro, non si alleano sin dal primo momento. Se guardo la mia esperienza e quello che mi succede senza interpretare i fatti, quello che succede è sempre la stessa cosa, ossia che c’è come un’idea immediata che appare dal nulla e poi il tentativo di realizzarla, di metterla in opera. Accade sempre un intoppo, come dicevo prima, nel percorso, che mi distrae dell’idea originaria, o meglio, me la fa apparire come insufficiente rispetto all’oggetto che sto cercando di fare emergere.

Ed effettivamente è così. La pratica all’inizio va messa in opera, l’azione reale per mettere in opera un’idea è sempre insufficiente. L’idea è sempre più grande, almeno così appare a noi, di quanto non lo sia nella realtà.

Allora subentra una pratica che muta dall’idea di prigione e la trasforma in qualcosa d’altro, più vicina a noi, sino a che avviene un secondo intoppo, ossia l’idea originale mi appare talmente lontana dalla sua originalità e dalla sua dimensione originaria che mi pare che la pratica stia innestando qualcosa che rischia di cambiarne il valore, e allora c’è un passo indietro e questo passo indietro è quello decisivo.

Un riavvicinamento all’idea e un tentativo di ricongiunzione all’idea e pratica e l’opera comincia a prendere forma.

L’opera comincia a prendere forma dopo una lotta in cui l’idea e la pratica vogliono entrambe prendere il sopravvento sulla realtà, poi arriva un momento in cui le cose si combinano e c’è una sorta di pacificazione, che non è una pacificazione a perdere, diciamo, semmai a vincere, è diciamo un patteggiamento, e questo patteggiamento mi conferma che l’idea originaria era l’unica degna di essere rappresentata.

Il processo di realizzazione dell’opera d’arte e anche creativo è un processo sia evolutivo che involutivo. Non va nella direzione esclusiva della realizzazione di un’idea, ma la modifica nel tempo, però questa modifica serve ad avvicinarsi all’essenza vera dell’idea che ci era apparsa all’improvviso, all’inizio.

Semmai forse c’è da dire questo: l’idea che ci appare all’improvviso all’inizio è radicale e confusa. Ha bisogno di un processo per rendersi più esplicita ed acquistare la sua radicalità anche in termini formali.

Perciò, diciamo, c’è una potenza iniziale che però è confusa, e tutto il lavoro dell’opera è quella ripresa, una messa in forma di quella potenza iniziale che non va persa.

Sì, non solo messa in forma di quella potenza iniziale, ma anche messa in forma che serve a potenziare ancora di più la potenza iniziale, a renderla più forte, da potersi permettere di essere esplicita. Non è un addomesticamento, ma un potenziamento.

Questo credo che sia il processo, almeno quello che serve a me. C’è sempre un momento di confusione, in cui sembrerebbe che valga la pena di abbandonare tutto, e questo credo sia effettivamente il più delicato, e in cui c’è il rischio che si abbandoni, mentre invece a volte basta poco.

Basta non insistere in quello che consociamo già. In quella idea originaria o almeno la sua originalità che rischiava di sfuggirci e di arrendersi al tempo anche.

Dica di più.

Perché poi c’è questa questione, ossia a volte l’idea originaria è talmente potente da imporci un tempo realizzativo fulminante, e infatti ho molta stima degli artisti che hanno lavorato e che lavorano molto veloce. Al di là di quello che si dice del lavoro frettoloso, credo che gli artisti che riescono ad essere molto frettolosi siano da stimare, perché vuol dire che sono talmente bravi a realizzare qualcosa che hanno in mente, con un tempo ridotto, senza farsi distrarre dallo scorrere del tempo, diciamo.

Ci sono molti artisti della tradizione, anche italiana, ad esempio quello che si diceva di Mario Schifano, che lo si accusava di essere troppo veloce. Io non sono mai stato così veloce però ho un mito della velocità, in questo senso una specie di mito futurista.

Quando te dici che a volte può esserci un’idea, ma poi la abbandoni, ad esempio qualche lavoro iniziato e poi abbandonato per anni poi ripreso?

Sì, mi è successo, ma questo non ha impedito il ritorno, il fatto che tornare a lavorare sulle cose è servito solo a riscoprire la fonte originaria dell’ideazione, non ad abbandonarla.

Semmai, il lavoro stesso era abbandonato, perché non era in quel momento così evidente l’emergenza della fonte originaria e quando si riprende un lavoro è solo per farlo tornare alla sua purezza ideale originaria, non per farne qualcos’altro.

Non per portarlo altrove, ma per portarlo da dove è nato.

Rispetto a quando dici dove è nato, mi viene in mente Kiefer che seppellisce le opere nel suo laboratorio enorme, che lui ha costruito, sotto la terra, sotto dei cumuli di terra, seppellisce le opere per anni, e dice non era ancor il loro tempo.

Forse ne avevo parlato e credo di averti detto di Munch, e che seppellisca i quadri sotto la neve nel suo giardino. Ognuno seppellisce le sue idee negli spazi che ha a disposizione. Non è un caso che Munch, che è un pittore nordico, li seppellisca sotto la neve, non è un caso che Kiefer li seppellisca sotto la terra, perché è un tedesco, quindi continua ad avere il mito di sangue e terra, e io lì seppellisco in uno studio che assomiglia ad un bunker militare.

Il luogo della sepoltura è importante, perché naturalmente determina il luogo della rinascita, cioè laddove si seppellisce, qualcosa lì avviene una rinascita.

Forse per i Cristiani che hanno il fatto della sepoltura, oppure i Cristiani che sono contro la cremazione, il bruciare un corpo, perché insieme alla sepoltura c’è sempre abbinata l’idea della rinascita.

In effetti quando si procede alla realizzazione di un’opera si è sempre dinnanzi ad una rinascita. L’opera si lascia immergere ed emerge come dentro un liquido di cui continuamente si rischia di affogare, per poi riuscire a prendere una boccata d’aria per poi tornare ad affogare (encore), quindi è un giro continuo tra affogamento e salvezza.

Bella questa immagine. Questo è bello. Tra sepoltura e rinascita. Rispetto all’aspetto tra originalità e origine. Due parole diverse e allo stesso tempo sorelle in qualche modo.

Sono termini pericolosi. Sono termini se ci pensiamo, intorno a cui per esempio si sono sempre cimentate le dittature. I dittatori hanno sempre chiamato il popolo alla propria origine e si sono sempre sentiti depositari di questa.

Sono termini che ho sempre usato con molta prudenza.

Prudenza laddove si riducono in qualcosa di cementificato.

Soprattutto laddove questo pietrificare fa riferimento a delle entità precise, a delle persone che pretendono di incorporare questa monumentalizzazione. Vengo da una cultura abituata a demolire i monumenti e quindi di conseguenza anche da una cultura che ha criticato la questione dell’originalità e dell’origine, delle cose come momento celebrativo, di fronte al quale unificare i popoli.

Allo stesso tempo sono anche attratto da queste culture e la questione del monumento credo sia oggi da definire, perché è pure vero che nella tradizione artistica moderna si è puntato molto a rendere orizzontale un monumento, da monumento eretto a favore invece di un monumento depositato, posato, come un cadavere a terra.

Oggi credo invece che si possa considerare la questione della verticalità. Una verticalità però che punta verso il cielo, piuttosto che una verticalità che tende a ribadire la questione e la pesantezza della terra. Perché c’è una verticalità puntata verso l’alto e una verso il basso. A me interessa un interregno in effetti tra le due cose, però ho paura che questa verticalità puntata verso il basso che invita a condividere le radici di un qualcosa, e le radici sono spesso chiamate origine, come se ci fosse qualcuno capace di possedere queste radici e di imporle agli altri.

L’interregno è attingere da qualcosa, ma con una trascendenza, ossia proteso.

Quando sono stato chiamato dalla regione Puglia per occuparmi di questo lavoro, cinque anni fa, dedicato ad Antonio Gramsci. La regione Puglia era appena reduce dell’avere creato una commissione per creare un piano culturale. Di questa commissione fa parte Alessandro Leogrande, che è stato un bravissimo scrittore, molto giovane, che ha scritto sui fenomeni di immigrazione e ha coniato uno slogan rimasto sin da allora l’origine del mio lavoro: mettere insieme radici e ali.

Radici e ali sono state al centro di due grandi opere che ho realizzato per Bari: una la “Sala Cielo” del Kursaal e l’altra che si chiama “Compagni ed Angeli” dedicata ad Antonio Gramsci dove la questione del rapporto tra cielo e terra viene messo in rapporto stretto dialettico dialogico. Nelle culture nordiche probabilmente si tende più a sprofondare nel terreno, piuttosto che a guardare in alto e quando si sprofonda nel terreno, si rimane avvinghiati nel terreno della morte, senza rinascita, in maniera inevitabile diciamo.

Rispetto ai materiali. Esiste un materiale a cui sei particolarmente ispirato nell’opera?

Guarda, il mio materiale, in termini ideali, per eccellenza, è la luce. Ogni materia che utilizzo, in effetti, pone il problema della trasparenza e della luminosità, sia esso in termini architettonici con il plexiglass, o il vetro, sia nell’acquarello propriamente trasparente, lucido e liquido, non opaco come la tempera o l’olio, per esempio.

Quindi tutti i materiali che uso, ne uso tanti, siamo alla ricerca di materiali nuovi, sperimentando molto che trovano continuità altri no, tutti questi materiali sono finalizzati a cogliere questo momento intermezzo tra ciò che sprofonda e ciò che si collega.

La luce diventa buona, non solo come aspirazione verso l’altro, ma anche come mediazione elettromagnetica tra lo spazio e l’altro. Anche nell’ombra esiste una luce.

L’ombra, in questi termini, è prodotta da una luce, è un corpo opaco che si proietta in una parte, in termini di ombra. Anche nell’ombra c’è la luce, la luce è dappertutto. Questo percorso che dall’ombra arriva all’abbagliamento, questo mi interessa.

Questo, da sempre, ti capita anche quando mi dicevi dei momenti con tuo padre. Hai un fenomeno che ti rievoca e ti ritorna alla memoria?

Io, seppure capisca l’importanza della memoria, non ne sono ossessionato, anzi son una persona che dimentica molto facilmente, o meglio che cerca di dimenticare molto facilmente. Trovo che sia più interessante dimenticare che ricordare. Dimenticare ti permette di vivere un passato in maniera sempre nuova, mentre invece ricordare fa sì che il tempo sia sempre un tempo già vissuto.

A me interessa stare in una dinamica aperta, trovo che sia rischioso, perché ci blocca in una condizione determinata, un po’ da te, un po’ dagli altri. La memoria non è solo un fatto soggettivo, è molto di ciò che gli altri ricordano di te.

Non voglio che la memoria diventi la mia zavorra.

Questo modo in cui concepisci la memoria è interessante, quando dei depositi a cui possiamo non dare nome riaffiorano in maniera generativa e non narrativa.

Sì, le forma narrative prendono quasi sempre un discorso sia lessicalmente che simbolicamente stabilito. La memoria diventa un atto di libertà, questo mi interessa.

Mi viene in mente Durer, la scimmia di Durer è per me l’esempio della memoria, quella forma animale che ci sta a fianco in modo amicale, avere una cena a fianco, ad esempio, è un atto di memoria, ci ricorda un’origine animale e anche irragionevole a cui addirittura molti di noi tornerebbero.

Ad alcuni di noi piacerebbe avere uno sguardo melanconico di un cane.

Gli animali vivono nel presente. Sì, noi lo diciamo, lo diciamo perché abbiamo un immaginario fatto di ricostruzioni, ricordi che ci orientano, anche il cane ha delle forme di memoria chiaramente individuali, per esempio, ci riconoscono, ma in questo la cosa che più mi colpisce dello stare a fianco dell’animale è che sono ricordi privi di morale.

Sono privi di morale e il ricordo puro, questo è un modo di ricordare che a me piace moltissimo. Non c’è nessuna sovrapposizione di giudizio.

Cosa puoi dire del tempo dell’opera? Dopo, eseguita l’opera ti accorgi che essa è sopravanzata rispetto a qualcosa?

Ti risponderei così. È una tipica domanda degli anni 80 che mi riaffiora, non so perché forse per un certo ritorno alla pittura, che si chiedeva agli artisti quando fosse il momento in cui l’opera decide che sia finita e riferendosi ad un quadro molto spesso.

Ho sempre risposto che l’opera è finita quando è asciutta. Quando è asciutta, vuol dire, non solo che diventa trasportabile, per esempio, però soprattutto non c’è più quell’umidità, quel rapporto umido che fa dell’opera d’arte una sorta di amante in relazione amorosa.

La distanza non c’è e sei tutt’uno con. Quando è asciutta te ne separi e non è più roba tua, non metti mano.

Sì, affinché l’opera d’arte si possa dire completa deve essere asciugata da ogni sentimento di coinvolgimento, di ricongiungimento, che la fa ancora essere parte di te, ma a quel punto nella sua autonomia assume dei significati sfuggevoli e sfuggenti, che non sono più solo quella somma di significati che hanno portato alla sua realizzazione, ma ne fa scaturire altri.

Direi che l’opera d’arte per eccellenza è quell’opera che, continua a far scaturire significati, domande, anche al di là del proprio destino temporale.

Per questo possiamo dire che un’opera è viva e per questo possiamo dire che l’opera d’arte antica è vicina a noi. Questa è una cosa che differenzia ad esempio l’arte dalla scienza.

La domanda scientifica pretende sempre una risposata utile per il proprio tempo senza la quale non vi sarebbe dimensione scientifica, ma solo arbitraria.

Mentre invece diciamolo chiaramente l’opera d’arte dal punto di vista temporale è qualcosa di inutile.

Non è qualcosa di utile al nostro tempo, è qualcosa che semmai lo crea il tempo. Ricrea non solo il tempo presente, ma il tempo futuro e anche il tempo passato. Lo genera. Genera il passato, l’opera d’arte e in questa rigenerazione del tempo muta di forma, di senso, di significato, di quantità, di domande che ci pone e anche di qualità delle risposte che ci aspettiamo da essa.

È qualcosa che crea il tempo, parla del tempo presente.