[a cura di Valentina Galeotti]

Caro Maestro, trai i suoi scritti ritrovo un’affermazione: «La cancellatura è un fatto filosofico che ci riguarda tutti». Quando lei afferma, ad esempio, «Non credo che la cancellatura sia iconoclasta» o, riguardo alla sua opera sulla costituzione, dice che «distruggere la costituzione è un modo per salvarla», mi sembra esercitare al massimo grado questo genere di sensibilità. Potrebbe dirmi qualcosa di più riguardo a questo intervento su un’opera così importante, simbolo di un patrimonio culturale?

Posso dire questo – non necessariamente facendo ricorso a Freud, ma anche, se necessario: nella vita degli uomini, niente viene cancellato davvero; rimane comunque una zona oscura. Dunque, cancellare la parola in qualche modo significa accantonarla in una zona buia per riprenderla quando serve davvero. Freud non diceva questo quando parlava di rimozioni che si ripresentano, prima o dopo? Allo stesso modo, la parola si ripresenta, prima o dopo.

Rispetto alla memoria?

In questo momento la memoria non può essere vissuta come una forza nostalgica, ma piuttosto come un seme gettato per il nostro futuro. Un artista senza memoria non crea. Platone lo sapeva benissimo.

Non significa esercitare una memoria attardata, ma piuttosto pensare al futuro senza quei sedimenti di memoria propri della fretta e della furia dei mercati.

In questo momento la memoria è un’arma di resistenza, ma non dev’essere una forma di resistenza nostalgica, bensì una forza gettata, lanciata verso il futuro.

Lei sa che per quanto l’uomo cambi resta sempre una sedimentazione dell’uomo che non cambia mai. Freud e Jung possono dirci qualcosa sulla memoria dell’uomo e sulla sua importanza.

Noi non possiamo permetterci di ignorare le forze reali di un paese come il nostro. Con la sua storia, la sua cultura e la sua memoria. L’Italia esiste – pensi a Petrarca, Machiavelli, Dante –, purché non diventi un paese di morti. Questo è il rischio.

Come quando lei agisce su delle opere? Ad esempio quella del Manzoni?

Si tratta di un cancellare per svelare. Un mistico medioevale ha detto che la mano cancella per scrivere il vero. Velare per svelare. La cancellatura è un velo che svela. Non faccio cancellature nere, ma acquose. Cancellature in cui si vede sotto la superficie. Nel nostro tempo, l’interesse per la parola rischia di svanire perché siamo aggrediti da una spinta visiva, dove la parola si tramuta in chiacchera.

Perciò anche la cancellatura ci aiuta a rileggere il passato?

È un modo per preservare la nostra eredita culturale. Il fatto che io ritorni sempre su ciò che sapevo e avevo dimenticato non è un controsenso. Nell’Edipo re, l’indovino Tiresia dice a Edipo “io questo lo sapevo ma l’ho dimenticato”. Noi dimentichiamo per ricordare. Questa è la memoria.

Cancellare è puntare sull’essenziale, come se vi fosse un’operazione di estrazione dell’essenziale.

È chiaro che la cancellazione che faccio è il contrario della censura. È per liberare il significato delle parole. Lasciare ciò che è veramente essenziale significa che la cancellazione esteticamente e formalmente consente di riflettere la realtà nel mondo reale.

Noi siamo completamente accecati come Tiresia.

Mi dica di più.

Siamo accecati. Io preferisco una società democratica che autocratica, ma è chiaro che l’eccesso di informazione che spesso non si sa dove vada può essere un modo per depistare. Poiché è un mondo in guerra, come in guerra si danno le informazioni sbagliate per confondere. Dobbiamo chiederci, dunque, chi è oggi il nemico dell’autenticità umana? Chi ha bisogno di non far capire qualcosa agli uomini.

Rispetto a questo, lei parla di un pieno del discorso del capitalista.

Io faccio l’artista e so perfettamente che il mio lavoro prima o dopo verrà mercificato, quindi lo costruisco sempre perché ne resti qualche traccia. Qui l’artista deve attrezzarsi creativamente. Non basta la forza etica. A un artista serve anche la forza estetica.

Questo perché l’arte può sfuggire, volendo, persino alle censure. Per questa ragione la sua resistenza formale è importante.

Lei cosa ne penso del vuoto?

Il vuoto è stato esplicitato da Cage, attingendo alle filosofie orientali. La cancellatura non è questo. La cancellatura è portatrice di un pieno che causa la parola umana. Sotto c’è sempre la parola. Nel vuoto non c’è per niente.

Rispetto alle tecniche artistiche che hanno fatto del vuoto il loro punto centrale, penso a Mallarmé.

La pagina bianca. La cancellatura di cui parlo io subentra quando il bombardamento di parole si è fatto irrecuperabile – irrimediabile apparentemente. Lei pensi soltanto alla civiltà visiva che risponde, a partire dagli anni Sessanta, al bisogno degli americani che avevano acculturato il proprio popolo. Pensi alla Pop art.

Io ebbi paura che potesse essere estesa a tutto il mondo. Per questo ho inventato le cancellature.

Mi può dire qualcosa delle lettere?

Quelle lettere potrebbero essere lette in chiave cancellatoria. Il resto non c’è. È cancellata la parte per il tutto. Possono assumere un potenziale esplosivo. Se metto la lettera q, c’è una sproporzione e, quindi, si crea un’informazione estetica.

Nel mio lavoro io non intendo lavorare il buon tempo andato, come fa il genere umano. Io non abbellisco. Quelle sono cose proprie di una civiltà consumistica.

Quando parte un’idea? Prima di produrre un’opera?

Io vedo tutto, rifletto sempre. Non parto mai con la creazione in stato ipnotico. Parto sempre. Solo che quando, a un certo punto, la riflessione non mi aiuta più, allora le do un calcio e faccio appello a ciò che non capisco. Io sono uno che cerca di capire tutto per cultura e per vocazione, ma, a un certo punto, capisco che questo è un privilegio degli scienziati.

Mi sono pentito, in certi momenti della mia vita, di avere dovuto esercitare le mie proprietà intellettuali. Ho dovuto ragionare per confutare il senso di alcune prese di posizione. Per questo mi sono ritrovato sempre con un eccesso di ragionamento. L’eccesso di ragionamento si rovescia nel suo contrario. L’eccesso di ragionamento porta ad Auschwitz.

Apprezzo molto Adorno, ma non sono adorniano. Credo che riguardo a molte cose andrebbe riletto, ma bisogna usarlo con parsimonia. Quando dice che dopo Auschwitz non si possono più scrivere poesie, ad esempio. Ecco, io penso il contrario. Penso che se ne possano scrivere di più. Si tratta di quello che un tempo, a sinistra, si chiamava ottimismo della volontà.

Scrivere qualcosa è sempre una possibilità simbolica.

Una cosa che abbiamo già toccato. La cancellatura immette la discontinuità. L’isolare, l’estrarre delle lettere, immette una discontinuità. È questo un modo per stare svegli? Le sue opere non sembrano avere nulla di cronologico.

Una discontinuità è data dallo stesso cancellare che agisce sempre in forme diverse. Come ho sempre ripetuto, a differenza del cubismo la cancellatura non è uno stile, altrimenti sarebbe già morta. La pratico dal ‘64, faccia lei. Sarebbe già morta. La cancellatura è un linguaggio. È il rovescio della scrittura. Senza cancellare si può scrivere? No, non si può scrivere.

In questo senso è il rovescio della scrittura, è l’altra faccia della luna. Questo gli scrittori inconsciamente lo hanno sempre saputo – pensi a tutte le varianti che ci sono del romanzo di Manzoni o allo stesso Leopardi. Sono cancellature e correzioni. Ma la cancellatura, forse, non è neppure una correzione, è qualcosa di più. Non si capisce bene. È qualcosa di più mobile di quanto pensassi.

Quando lei dice che va da sola. Mi può dire qualcosa di questo?

La cancellatura va da sola come le mele cadono da sole dagli alberi. Basta vederle. Qualcuno le ha viste. E lei forse sa anche chi.