Igor Pelgreffi, Il prima e le forme: note su Grund e Abgrund
No, fermiamoci ancora solo un istante. Siamo andati troppo avanti. C’è un prima, un prima che precede il gesto, la voce: quel prima è lo spazio. Prima di tutto noi siamo nello spazio, noi siamo spazio […] Ancora siamo colti da vertigini se guardo all’origine. Eppure l’origine è qui, siamo noi l’origine, quella forma che abbiamo formato nei millenni e ancora ci forma[*].
Marco Martinelli, Coro
Prima (e) dopo
Penso al prima, al precedere, alla precessione degli istanti: ergo penso – più o meno consapevolmente – anche al dopo, al seguire, al non-essere più del prima. Prima e dopo: assieme ma separati, colti da sempre (almeno in Occidente) entro una struttura binaria, dualista e logocentrica, per dirla con Derrida. In altri termini, andare (o lasciarsi andare) dal prima al dopo significa anche – forse – abbandonare il prima al suo destino: il dopo. Ogni volta che ciò accade, nella mente, si evidenzia questo disegno dell’1-2, questa struttura di esclusione: il prima non è il dopo – e viceversa – ma il prima senza il dopo non significa nulla. Un significare-nulla che non è privo di importanza. Del resto, un concetto di prima separato dal (o privato del) dopo, mi pare possa traslare, parzialmente, il significante “prima” verso un suo lato non-significante, una specie di terra di nessuno in cui “prima” appare finalmente come segno che gira “a vuoto”, preso da solo, autonomo: segno che non significa nulla, ma che in qualche modo… non è privo di senso.
Prima-dopo, dicevo. È il problema della continuità. Non è, cioè, il problema di cogliere due punti (due tempi?) tra loro separati e di legarli o fonderli assieme, ma è il problema di cogliere un passaggio tra (tra prima e dopo). Ed è anche il problema di quale modello adottare. Detto in modo un po’ scolastico… Primo modello: il prima può contenere il dopo solo restandone disgiunto. In tale modo, esso sarebbe – in se stesso e per se stesso – un prima “vero”, un prima “realmente” privato di ciò che lo segue, diviso dal dopo come “vera” conseguenza, conseguenza “fondata” nel senso del Grund.
Secondo modello, completamente diverso: ogni “prima” sarebbe – in se stesso e per se stesso – già estroflesso sul dopo, già proiezione oltre se stesso, apertura sul suo “destino cronico”. Un in se stesso e per se stesso, però, che è anche per l’altro. Ma allora, non avrebbe più, a stretto rigore, una propria autonomia. Che cosa sarebbe, dunque?
Oppure ancora, un terzo modello, assai più complesso da pensare, e cioè un modello in cui “prima” risulterebbe essere… entrambe le cose: autonomia e subordinazione; autismo e relazione; precedenza “assoluta”, che non dipende da nulla e, al contempo, elemento materiale parte di un processo di successione inevitabile.
L’emergere di una forma: da quale “prima”?
Il problema della continuità che questa prospettiva su “prima” richiama, può essere anche visto, cercando uno sguardo un po’ spostato, obliquo, che possa restituire qualche nota dissonante, in grado di sintonizzarci provvisoriamente al “problema” suddetto, come la questione delle forme. Intendo dire: il problema della trasformazione di una forma appunto da un prima a un dopo, e in particolare la questione di una forma inedita, imprevedibile, “nuova”. Come nasce una nuova forma? Da quale zona del tempo proviene? Qual è il suo “prima”, se ve ne è uno? Ed ancora: secondo quali deviazioni dalle leggi del divenire stabilito, dalle sedicenti “leggi invarianti” della fisica, una forma – per esser davvero “nuova” – sconfessa la sua stessa precedenza, al contempo prolungando e negando il suo “prima”? Potrei anche aggiungere che se ci interroghiamo su come una nuova forma possa essere – davvero – una scrittura dell’imprevisto, ecco che una riflessione sul rapporto indecidibile tra prima e dopo si rende utile, se non necessaria. Il tema delle dinamiche morfogenetiche sembra tornare oggi di attualità nel dibattito scientifico. Solo come spunto, si prendano i recenti lavori, tra matematica e filosofia, di Alessandro Sarti, Giovanna Citti e David Piotrowski come Differential Heterogenesis. Mutant Forms, Sensitive Bodies (Springer, collana Lectures Notes in Morphogenesis)[1], o anche l’articolo del 2019 Differential heterogenesis and the emergence of semiotic function[2]. Queste ricerche rivendicano un concetto di divenire delle forme come non soggetto a vincoli fissi nello spazio e nel tempo, dove le forme formanti in qualche modo “inventano” e “immaginano” (seguendo il concetto di materialismo immaginativo[3]) una loro dinamica post-strutturale riconducibile alla figura dell’eterogenesi differenziale, di guattariana memoria. Le forme biologiche, ma anche quelle sociali e/o quelle mentali-percettive, si modificano seguendo linee di forza che spostano il processo morfogenetico oltre la possibilità del controllo di stampo razionalista-strutturale. Le leggi stesse dell’emergenza formale sono eterogenetiche: possono variare durante il processo. Qui la pre-vedibilità del dopo dal prima è fortemente messa in questione, sin dalle fondamenta (dal Grund). Ecco che il clinamen reclama un proprio spazio, prende corpo, direi, nelle dinamiche stesse: il dada emerge e ricombina (assembla) a sua volta modi e forme, differenziando “il risultato” rispetto alla forma che assumerebbe entro un automatismo meccanico di riproducibilità della forma da se stessa e in se stessa: la materia viva, la continuità immanente di un gioco di forze (il differenziale, nel senso di Deleuze e Guattari) a cui si sovraimpone appunto il clinamen imprevedibile, risulta quindi essere alla base di tali dinamiche, come una “sostanza” aperta e mobile.
La forma passa dal suo prima al suo dopo abbandonando ogni referenza alla norma, alla legge fisica, psichica, sociale, ma anche alla legge identitaria: quanto alla forma, non si può più neppure parlare del suo possedere, da qualche parte o in qualche tempo, una “propria” forma. La forma è in quanto essa diviene altro, in quanto l’evento, il fuori, entra e modifica ogni referenza al possessivo “sua”, al proprio, alla proprietà e all’appropriatezza.
Con una formula: la forma diviene altro nella misura (senza misura) in cui l’altro diviene forma, e tale chiasma, in ultima analisi, rimette in discussione la pacifica sequenzialità di prima e di dopo (ovvero, di quanto credevamo essere il pima e il dopo di una forma).
Continuità, inconscio, abisso
Non posso qui, per motivi di spazio, dilungarmi su queste prospettive. Esse, come accennavo, aprono scenari di grande interesse sul senso e sul valore del cambiamento, della disautomatizzazione dei corpi e delle vite in genere, sulle trasformazioni emancipanti/immanenti. Sulla comprensione – anche – del nostro passare dal prima al dopo, individualmente ma anche collettivamente. Torniamo, però, per un istante (un istante: ma è prima? o dopo?) al tema teoretico.
Dicevamo che chiedersi come siano tra loro (s)legati il prima e il dopo, significa porre la questione della continuità, ma un continuità che non esiste sul piano del segno, cioè del significare: il rinvio a un prima e a un dopo, elemento necessario a qualsiasi significazione, qui entra in risonanza, e in impasse: va in folle. Fuoriesce – forse – da ogni schematismo linguistico, comunque inteso, e diviene altro… La domanda però ritorna, incessante e solo appena smorzata, quasi un revenant: come si passa, si transita, si “continua” dal prima al dopo? Il prima è forse il significante: ciò che è stato. L’oggetto. Il passato. La memoria. L’oblio: forse persino l’oblio dimora misteriosamente nel prima. Il dopo è la prefigurazione, l’immagine ventura e, forse, persino il sogno di una forma, di un futuro formale. Da un lato, dunque, il prima di una forma, la sua memoria, il passato inesplorabile della forma. Dall’altro il suo dopo, l’essere divenuta. Non se ne esce in modo lineare, semplice, “logico”.
Di nuovo: possiamo dire “prima”, pensandolo come terra perduta ma ancora attiva qui, “in” noi: un prima della forma come luogo informe, in cui tutte le forme sono ancora (im)possibili. Assieme possibilità e impossibilità: che cos’è questa, se non la formula della sostanza? Un prima come fondamento instabile di ciò che viene dopo: come Grund e Abgrund nello stesso tempo, per riprendere termini goethiani. Dove Grund è il terreno, il fondo, e Ab-Grund l’abisso: il senza fondo. Perché, forse, l’informe ha che vedere con l’inconscio. Magari un inconscio pre-freudiano o, meglio un inconscio a-freudiano: un inconscio sociale e assieme un inconscio corporeo, qui nel senso ampio di una corporeità animale, financo vegetale, che ci precede sempre, anche quando siamo già formati biologicamente: una spinta perennemente attiva nei processi di formazione di noi stessi.
Un inconscio pre-segnico, che sarebbe sempre prima. Di nuovo: che accade? Risposta: prima di non significare nulla, qualcosa cerca confusamente di emergere semioticamente. Qualcosa rintraccia, insegue, lascia essere cioè, non tanto e non solo le sagome formali, ma direttamente le dinamiche di una propria espressione corporea. E tutto questo tanto nel senso in cui Deleuze argomentava dell’espressione in Spinoza, tanto nella direzione indicata dallo sviluppo di un pensiero dell’eterogenetico differenziale, da Guattari, Simondon, Deleuze lungo una linea che, appunto, giunge sino alle recenti ricerche di Sarti, Citti, Piotrowski. E oltre.
Faust: il fondo informe da cui sorgono tutte le forme
Sinora non ho detto niente: ho rilevato semplicemente una terra di nessuno, un impedimento, una strutturale complicazione a dire questo passaggio dal prima al dopo, dall’informe alla forma. Per finire, lancio una suggestione; e forse poco altro si può fare, “qui”. Torniamo, cioè, in uno dei luoghi in cui il tema mi pare veramente posto, nella nostra tradizione di pensiero, cioè il Faust di Goethe. Un luogo comune, in un certo senso. Una scena primaria, forse.
Il tema, molto noto e studiato, è quello dell’abisso delle forme inteso come fondo, come fondamento irrisolto, come luogo inconscio nel senso visto sopra: come fondo senza forma, da cui però nascono tutte le forme… Siamo nel Faust, parte II, atto I. Faust ha intrapreso il percorso verso l’abisso, verso il Grund come Ab-Grund (verso il fondo senza fondo), il cuore enigmatico della morfogenesi goethiana, l’oscuro brulicare prelogico e preformale di ogni forma futura. Un viaggio, dunque, a-dialettico, perduto nella terra di nessuno tra un prima e un dopo. Non nel prima e poi nel dopo, ma nel “tra”, nell’intermezzo, nell’entredeux. Nella No Mans Land: terra senza uomo; terra senza soggetto. Non dimentichiamolo. Faust percorre la galleria oscura. Ed ecco che qui Mefistofele gli annuncia la presenza del Grund (in tedesco, naturalmente, Grund è il fondo, il terreno su cui poggiamo, la sostanza, la ragione…).
Così Mefistofele a Faust: “sei giunto al fondo dell’abisso più profondo”[4]: abiti, ora, lo sconvolgimento di qualsiasi criterio opposizionale, di qualsiasi dialettica consolatoria, ti apri all’incondizionato, all’abisso (Abgrund). Ma l’abisso (Abgrund) è sempre ed anche il fondo (Grund) senza fondo, a partire dal quale si rende possibile l’esperienza fondamentale, l’esperienza limite, l’esperienza senza esperienza, potremmo dire, e cioè l’esperienza del sorgere di nuove forme non da un segno premonitore, non da un prima, ma… da quel che sta tra un prima e un dopo: una soglia, uno spazio di ambiguità in qualche misura costitutiva/costituente. Qui si parla quindi, della nuova forma che nasce da un altro luogo, da una topologia inedita, totalmente altra. Si noti anche come, in questi straordinari passi di Goethe, un siffatto movimento impossibile sia legato al femminile, alla passività (le madri): là, nell’abisso, accade l’evento decisivo benché inattribuibile: le forme prendono forma a partire da un fondo informe, nel loro formarsi/riformarsi/trasformarsi (“Gestaltung, Umgestaltung”[5]). Ed anche questa strada per Faust, che rende possibile la generazione di tutte le forme, in quel silenzio assoluto e purtuttavia popolato di possibili dove sono generabili tutti gli incontri (in una strana analogia col Deleuze di Conversazioni[6]), è caratterizzata da una profonda solitudine (a due), a suo modo terapeutica. Per inciso, e come ipotesi: sta avendo qui luogo un dialogo, tra Faust e Mefistofele, che non sarebbe insensato definire pre-psicoanalitico. Un prima della psicoanalisi, cioè molto prima che essa, con Freud, divenisse istituzione mondiale (Derrida)[7] e pratica istituzionalizzata, o morta.
Restiamo allora in questo “prima”, da intendersi dunque come una contaminazione del tempo, un prima già confusamente connesso al dopo pur avendo un proprio autonomo essere. L’assenza di fondamento (Mefistofele dice: “Tenda il tuo essere verso il profondo! Sprofonda percuotendo col piede, risalirai percuotendo col piede”[8]) non implica alcuna prospettiva nichilistica, cioè una zona di nulla, di sfondamento del fondo di tipo “vuotista”. Per Faust, vivere l’indeterminato, che in fondo ricorda l’apeiron anassimandreo, non implica l’assenza totale di forme future (conseguenza di una separazione netta, dualistica, tra un prima della forma e un dopo della forma). Per Faust, al contrario, bagnarsi nel fondo informe, nell’abisso oscuro del corpo e della memoria, immergersi nel fondo dell’essere e “incorporare” questa stessa immersione, non è affatto un gesto improduttivo ma si profila, anzi, come garanzia a che l’eventuale forma futura possa essere significante, proprio poiché essa ha ora uno spessore, una memoria del corpo, se si vuole, un inespresso proveniente dal campo vitale del Leib. Il segno, il verso, il dopo (quel che verrà del segno in formazione) riguadagna qui un proprio lato fisico: l’altra faccia del lato linguistico-simbolico del segno de-materializzato che emerge, per esempio, dal corpo che parla. Non da un soggetto che parla: da un corpo che verbalizza l’inconscio. Magari, quello steso sul divano dello psicoanalista. Si tratta qui – anche – di una spazializzazione del segno, di un recupero di res extensa da parte dello spirito-parola, di cui occorre tener conto in epoca di linguisticizzazione neo-strutturalistica del mondo storico-sociale. Ma… siamo andati troppo avanti.
Mi fermo qui, con le parole con cui (prima?) avevo aperto: “No, fermiamoci ancora solo un istante. Siamo andati troppo avanti. C’è un prima, un prima che precede il gesto, la voce: quel prima è lo spazio. Prima di tutto noi siamo nello spazio, noi siamo spazio […] Ancora siamo colti da vertigini se guardo all’origine. Eppure l’origine è qui, siamo noi l’origine, quella forma che abbiamo formato nei millenni e ancora ci forma”[9]. Non c’è origine, se non come mobile differenziazione di un “prima”. Qui, nell’Abgrund, c’è solo processo, differenza, divenire altro: eterogenesi.
note
[*] M. Martinelli Coro, AkropolisLibri, Genova 2023, p. 18.
[1] Cfr. A. Sarti, G. Citti, D. Piotrowski, Differential Heterogenesis. Mutant Forms, Sensitive Bodies, Springer 2022.
[2] Cfr. A. Sarti, G. Citti, D. Piotrowski, Differential Heterogenesis and the Emergence of Semiotic Function, “Semiotica”, vol. 230, 2019, pp. 1-34.
[3] Cosa si intende con materialismo immaginativo? Seguendo Sarti: “una materialità generatrice, capace di creare singolarità estese a tutte le scale e che hanno a che vedere con una “chaire vibrante” in continua ricombinazione. Una materialità che ha saputo non solo inventare la vita (e reinventarla radicalmente una seconda volta sulla base della fotosintesi dei cianobatteri) ma ha continuato a reinventarla durante tutta l’evoluzione generando milioni di specie animali e vegetali. È la molteplicità e la diversità delle forme che testimonia una continua ricerca del nuovo, una re-immaginazione continua, contrariamente ad una visione della natura statica e depositaria di un sistema di leggi immutabili. Cfr. A. Sarti, I. Pelgreffi, L’hétérogènese différentielle. Formes en devenir entre mathématiques, philosophie et politique, “Multitudes”, 78 (1), 2020, pp. 154-163.
[4] J.W. Goethe, Faust e Urfaust, Feltrinelli, Milano 2002, vol. 1, p. 323.
[5] Ibidem.
[6] Deleuze faceva riferimento a una sorta di “solitudine assoluta”, intesa tuttavia come “solitudine estremamente popolata. Non di sogni, di fantasmi o di progetti, ma di incontri […]. Un incontro è forse la stessa cosa di un divenire […]. È dal fondo di questa solitudine che uno può fare qualsiasi incontro. Cfr. G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, ombre corte, Verona 20192, p. 12.
[7] Sulla psicoanalisi come istituzione mondiale di cui Freud è “il padre”, istituzione quindi che sorge dalla pratica di scrittura in Freud, scrive Derrida: “Come può una scrittura autobiografica, nell’abisso di un’autoanalisi non terminata, presiedere alla nascita di un’istituzione mondiale? La nascita di chi? Di cosa? E in che modo l’interruzione o il limite dell’autoanalisi, cooperando alla messa “in abisso” più di quanto non l’ostacoli, riproduce il suo marchio nel movimento istituzionale?” Cfr. J. Derrida, Speculare – su “Freud”, G. Bberto (cur.), Cortina, Milano 2000, pp. 55-56.
[8] J.W. Goethe, Faust e Urfaust, cit., p. 323.
[9] M. Martinelli, Coro, cit., p. 18.