No hay que ver el futuro para saber lo que va a pasar.

Nicolas Jaar

 

Padrone di sé, cioè schiavizzato

Nella lezione XXIII del Seminario XVI, Lacan fa un riferimento ad alcuni studi di Lorenz sul comportamento dei lupi[1]. Nella lotta tra due lupi, quello che sta soccombendo offre la gola a quello che sta vincendo. A questo punto la lotta si conclude. Qualcosa di analogo avviene nella lotta tra essere umani – il vincente non sgozza il soccombente e si accontenta di ricevere l’offerta della gola.  C’è però una differenza sostanziale: «Il lupo vincente non si crede due lupi, l’essere parlante invece si crede due, e cioè, come si dice, padrone di se stesso» (p. 364).

Si tratta di un passaggio stretto.

La lotta tra lupi e tra parlanti (parlati) chiama sicuramente in causa la lotta servo-padrone, della quale Lacan si sta occupando, decisamente a modo proprio, in questa lezione e in quelle attigue. Per Lacan la lotta servo-padrone non è, come invece per Hegel, e per molti con lui, tra due soggetti (o soggettività) ma è interna al funzionamento del significante ed è tra il significante e il soggetto. Quella interna al significante indica la funzione di un significane padrone e la funzione di un significante (una serie) servo. Quella tra significante e soggetto indica che il significante è padrone e il soggetto è servo – e che la morte è il padrone assoluto introdotto nella vita dal significante.

In entrambi i casi, il significante, la sua azione, la sua incidenza, è un padrone molto più solido di quello hegeliano. Come quello hegeliano ha bisogno del servo per comandare; a differenza di quello hegeliano non ha alcun bisogno di apprendere qualcosa dal servo per comandare e non ha bisogno della risposta del servo per comandare. In questo modo il padrone significante non si ritrova come il padrone hegeliano ad essere schiavizzato dal servo, ma si ritrova a comandare capricciosamente.

A questo punto, che fare? Il soggetto, servo di questo padrone molto più serio di quello hegeliano, che ha da fare rispetto a questo padrone?

Non è possibile rispondere qui in modo articolato. Limitiamoci a seguire Lacan in questo passo.

In primis, il soggetto può intraprendere la lotta con un simile confidando di vincerla e di diventare attraverso questa vittoria padrone di se stesso, dunque padrone del significante.

In seconda battuta, e più significativamente, il soggetto può intraprendere un rapporto con l’azione del significante, operare su questa, per cercare di esserne padrone: «basta considerare uno qualsiasi [un soggetto qualsiasi] per sapere che come minimo si crede due, perché la prima cosa che vi racconta sempre è che, se non fosse andata così, sarebbe andata cosà» (p. 364) – si tratta di un passaggio decisivo, che va molto al di là di quello che ne riusciremo a scrivere nelle prossime righe.

Questi due tentativi di padroneggiare il significante non possono che condurre il soggetto a diventare «schiavizzato nel modo più perfetto possibile» (p. 364) – dunque a fare, parzialmente, la fine del padrone hegeliano.

Lacan ci sta forse suggerendo l’opportunità di farsi servo del significante? Lo vedremo, un po’, tra poco.

Il Due giusto e il Due sbagliato

Siamo soliti, anche con Lacan, accostare la figura del soggetto padrone di sé al numero Uno – pieno, unito, completo, sferico, sono nomi del soggetto padrone di sé che in effetti intrecciano l’Uno.

Siamo soliti, anche con Lacan, accostare la figura del soggetto altro da sé, mancante, diviso, al numero Due – scissione, divisione, rottura, differenza, iato, sono nomi del soggetto altro da sé che in effetti intrecciano il Due.

A questo soggetto diviso si associa inoltre il problema della finitudine/limite e dell’alterità/differenza che sono due must di qualsiasi riflessione sul soggetto e sulla soggettività. Ovviamente qui si collocano altri due must, quello del molteplice e della plasticità, nel merito dei quali non entriamo perché esulano dal passaggio di Lacan che stiamo considerando.

Chiediamoci una cosa semplice: come mai Lacan sovrappone la figura del soggetto padrone di sé al Due? – questa è la domanda decisiva della nostra breve elucubrazione.

Non è stato lui stesso ad affermare che l’azione del significante è all’insegna del Due, e che dunque il tentativo di diventare padroni di questa azione è un rifiuto del Due e un’affermazione dell’Uno? Sicuramente lo ha detto, anche se forse c’è qualche rischio di fraintendere il come lo ha detto. Lo ha detto in questi termini: l’azione del significante è all’insegna del Due se con questo si indica che ogni significante è diverso da se stesso – e se ogni significante è diverso da sé non appena si è presi da un significante si è già presso un altro significante e così via. Questo Due non è certo una figura della padronanza di sé, anzi la padronanza di sé è il tentativo di negare questo Due.

Qui c’è però il rischio di un fraintendimento insidioso. Se si sposta appena il modo di intendere il Due, cosa che accade spesso, facendo del Due la coppia o somma di significanti, e dunque del soggetto quell’esistenza sempre presa tra due significanti, si inizia, forse inavvertitamente, a fare del Due una figura della padronanza di sé.

C’è dunque un modo giusto di intendere il Due che ne fa la cifra della differenza e c’è un modo sbagliato di intendere il Due che ne fa la cifra di una padronanza di sé mascherata da differenza.

Non c’è alternativa, c’è dell’Uno

Veniamo ora al passo di Lacan, la sovrapposizione tra Due e padronanza di sé. Potremmo cavarcela dicendo che Lacan si sta qui riferendo al Due sbagliato, ma sarebbe chiaramente una scorciatoia. Lacan si sta qui riferendo al suo Due, al Due giusto, e ci sta dicendo che anche il Due giusto diventa una figura della padronanza di sé non appena si rovesciano le carte – ed è quello che sta accadendo nel Seminario XVI.

In che cosa consiste questo: “si rovesciano le carte”?

Consiste nel rovescio del significante, nella scrittura dell’esistenza di una dimensione del significante nella quale il significante non è diverso da sé, ma coincidente a sé, ossia alla sua stessa azione.

Consiste nell’affermare una declinazione del significante che non consiste che nel proprio incidere, nel proprio accadere, nel proprio urtare e urtarsi. Uno, o meglio c’è dell’Uno, è il numero di questa declinazione del significante, rispetto alla quale il Due, il significante diverso da sé, è un tentativo di padronanza – in tale direzione tutte le questioni figlie di questa concezione del Due, cioè la ri-significazione, la ri-storicizzazione, la soggettivazione (quest’ultima divenuta un vero termine passepartout buono per tutte le occasioni), diventano figure della padronanza di sé.

L’incidenza del significante in una vita si combina e ricombina costantemente, può prendere una direzione e poi un’altra, avere certi effetti e poi altri, così da determinare continuamente il soggetto preso nel significante, lasciandolo contemporaneamente indeterminato, indefinito, sospeso. Siamo qui nella dimensione spaziale e temporale dell’alternativa, nel Due.

Ma prima di incidere in un certo modo una vita, di declinarsi da un verso e poi da un altro, di combinarsi e ricombinarsi, l’incidenza del significante incide una vita, e a questo non ci sono alternative – qui c’è dell’Uno.

Qui è necessario cogliere una sfumatura.

Abbiamo detto che non c’è alternativa all’incidenza significante, al fatto che il significante incide (c’è dell’Uno), mentre c’è alternativa a come si declina questa incidenza (Due). Il non c’è alternativa va poi colto a due diversi livelli.

Il primo. Non c’è alternativa al fatto di venire incisi dal significante, al fatto che x venga costantemente inciso dal significante.

Il secondo – che è quello più radicale e che una volta posto sta al fondo anche del primo. Non c’è alternativa per il significante stesso e non solo per x sottomesso al significante. Detto altrimenti, affermare il rovescio del significante, una dimensione del significante coincidente con il suo accadere, che non è che il suo incidere, comporta affermare che non ci sono alternative, ossia che c’è una dimensione del significante che non può che incidere in quanto non è che questo incidere – e dunque è senza alternative (è proprio ciò a caratterizzare il c’è dell’Uno).

Per dire il tutto in soldoni: non c’è alternativa al fatto di venire incisi dal significante, ma ciò è propriamente e radicalmente così perché ad un livello il significante non è che la sua stessa incidenza – il significante stesso non ha alternativa.

Qui si aprono molti problemi.

Per il nostro ragionamento è sufficiente sottolineare un passaggio. A questo punto per Lacan se non fosse andata così sarebbe andata cosà è la formula indicante la posizione del soggetto nel Due del significante, la posizione tesa a padroneggiare l’Uno del significante, cioè a padroneggiare il semplice fatto che al venire incisi, decisi, mossi, urtati, dal significante non ci sono alternative. Si tratta allora di posizionarsi rispetto all’Uno del significante facendo a meno del tentativo di padroneggiarlo attraverso il Due del significante. La pratica analitica è il tentativo di fare capitare questa posizione – non va da sé.

Non voglio essere la gallina

Aggiungiamo un tassello.

Nello stesso seminario Lacan fa un breve riferimento a un caso clinico scritto da Helene Deutsch. Si tratta di un bambino, il quale si trova rispetto al desiderio della madre in una posizione gioiosa e piacevole, quella di «essere la gallina che produce uova preziose per la madre» – ovviamente stiamo parlando di posizione soggettiva e non di realtà. Un giorno il fratello maggiore lo afferra da dietro, lo stringe e gli dice: «Io sono il gallo e tu sei la gallina!» (p. 304), affermazione che riceve questa risposta: «Non voglio essere la gallina» – che in inglese, lingua nella quale è scritto il caso è: “I won’t be the hen” – riportiamo la frase in inglese perché avrà un certo peso nella lettura di Lacan. Dopo questa risposta il bambino sviluppa una fobia verso le galline.

Che cosa è successo? Come mai la posizione di “essere la gallina” passa improvvisamente da piacevole a traumatica tanto da rendere necessaria la formazione di un sintomo?

Con ogni evidenza ci sono molte cose in gioco, c’è il problema del fallo, il complesso di intrusione, etc. Ma a noi sembra che Lacan metta l’accento soprattutto su un punto: la frase del fratello maggiore introduce il simbolico nella vita del bambino, è cioè «il dominio, il potere, la sottomissione». Che l’introduzione del simbolico in una vita risolva e crei problemi è un dato assodato dell’insegnamento di Lacan – nella fase in cui siamo potremmo dire che sono più i problemi che crea rispetto a quelli che risolve –, così come è assodato che il simbolico è da sempre presente in una vita il che non toglie che si introduca in una vita in determinati momenti. Allo stesso tempo, anche il fatto che l’introduzione del simbolico sia declinata nei termini di dominio, potere, sottomissione è un dato assodato nell’insegnamento di Lacan, così come che questa introduzione avvenga nel luogo fortemente libidizzato della relazione madre-bambino.

Ma per il nostro ragionamento il punto focale è uno e solo uno: il gesto/frase del fratello è un momento, ce ne saranno stati altri e ce ne saranno altri poi, nel quale nella vita del bambino viene introdotta l’incidenza del significante, ossia il fatto che l’azione del significante – in questo caso “io sono il gallo e tu sei la gallina” – incide, turba, altera chi la riceve e a ciò non c’è alternativa.

Due precisazioni.

La prima. Che sia stata proprio questa frase a presentificare l’incidenza del significante è in parte un caso, in parte probabilmente legato al fatto di venire introdotta in un luogo fortemente libidizzato, resta il fatto che a stabilire che sia stata proprio questa frase sono le sue conseguenze, cioè il trauma e il sintomo.

La seconda. Non bisogna dare peso al contenuto della frase ma al suo accadere, ossia non è il contenuto della frase a fare trauma. Non bisogna dare troppo peso alla declinazione della frase, ossia non è il concatenamento creato dalla frase a fare trauma. Bisogna dare valore al fatto che nell’incontro con questa frase il bambino fa l’esperienza di essere sottomesso senza alternativa all’azione del significante, e questo a prescindere dal contenuto e dalla declinazione della frase.

Resta il fatto che gli effetti di questo trauma saranno invece legati alla declinazione della frase che ha fatto trauma.

Nel caso del bambino, possiamo dire che prima del gesto/frase del fratello “essere la gallina della madre” coincideva con il “non essere la gallina della madre”, ed in questo iato, in questo gioco, stava il piacere e la gioia di essere la gallina della madre. Dopo la frase del fratello “essere la gallina è senza alternativa”, dunque non c’è scampo, dunque è traumatica. Ma non bisogna confondersi su questo punto decisivo. Non c’è alternativa è relativo all’incidenza significante, non c’è alternativa al venire incisi da questa. Poi, inevitabilmente, nella vita di ciascuno il non c’è alternativa si sposta su qualche elemento presente nella frase che ha incarnato l’incidenza del significante e la si sperimenta a questo livello – nel “nostro” caso “tu sei la gallina”.

Per far notare che l’incidenza del significante è dell’Uno, cioè che in primis non sta che nel proprio incidere – come accennato è propriamente questa la ragione prima e ultima del fatto che l’incidenza significante è radicalmente senza alternativa – Lacan opera una forzatura linguistica. Come anticipato ci sarebbe tornata utile la versione inglese, cioè originale, della risposta del bambino alla frase del fratello, che ora possiamo considerare la riposta del bambino al senza alternative dell’incidenza significante: “I won’t be the hen” (“Non voglio essere la gallina”). Ebbene Lacan fa notare che la pronuncia di hen in inglese (gallina) ha qualche assonanza con la pronuncia di Un (Uno) in francese e per di più c’è la stessa pronuncia aspirata della n – cioè della negazione: «Notate che in inglese hen ha esattamente la stessa pronuncia aspirata della n dell’Uno di cui vi ho parlato prima. Egli non vuole essere la hen» (p. 304). E come se il bambino incontrando il trauma dell’Uno del significante dicesse: “Non voglio essere Uno” e iniziasse, come tutti (quasi), a credersi due, cioè padrone di sé.

 

note

[1] J. Lacan, Il Seminario. Libro XVI. Da un Altro all’altro, Einaudi, Torino 2019.
Le citazioni tratte dal seminario saranno riportate con l’indicazione della pagina inserita tra parentesi al termine della citazione.